«I confini egiziani con Gaza devono tornare a essere sicuri». Tra sacchetti e brandelli di tende, portati dal vento ci sono anche dei foglietti celesti su cui sono stampate queste parole. «Haniftah bab gdid», «apriremo un nuovo valico». Volano in aria senza che nessuno ci faccia caso mentre tutt’intorno nelle strade di Rafah c’è il caos. Anche se in tanti sono già andati via, più della metà dei palestinesi accampati nel sud della Striscia non si è ancora allontanata.

«Non sanno dove andare», spiega la giornalista Noor Shirzada. «All’inizio, chi ha lasciato Rafah si è spostato a Deir al Balah, ma adesso è super affollato, non c’è più un posticino libero. Dalla settimana scorsa, infatti», spiega ancora Noor, «quelli che hanno deciso di andare via si sono diretti a Khan Younis, anche se lì non c’è rimasto nemmeno un muro in piedi. Oppure, molti altri si stanno accampando sulla spiaggia di Al Mawasi».

Nella zona proprio al confine con l’Egitto sono rimaste molte famiglie. Qualcuno, approfittando delle case vuote, ha traslocato dalle tende a qualche palazzo poco più in là, ma sono pochi coloro che rischiano di rimanere sotto le macerie. I più sono ancora sistemati al meglio delle possibilità, anche se le condizioni igienico-sanitarie di Rafah sono ormai apocalittiche.

Per di più, la Unrwa, l’Agenzia Onu responsabile per i rifugiati palestinesi, ha sospeso la distribuzione di cibo a Rafah. Un po’ perché mancano le condizioni di sicurezza, per i continui attacchi, un po’ perché le scorte di alimenti sono terminate. E non arriva nulla da quando Israele ha preso il controllo del Rafah gate.

È anche per far fronte al problema degli approvvigionamenti che dall’altro lato del check-point palestinese, nel cuore del Sinai, una coalizione di gruppi tribali ha chiesto ufficialmente al presidente egiziano Al Sisi di aprire un nuovo valico di frontiera. La richiesta è partita dall’Unione delle tribù arabe, un sodalizio tra cinque diversi gruppi beduini della zona.

L’alleanza è nata lo scorso 1° maggio e ha inglobato l’Unione delle tribù del Sinai, un ambiguo gruppo paramilitare che ha collaborato con l’esercito ufficiale egiziano, soprattutto durante la guerra contro l’Isis. «L’Unione vorrebbe che Al Sisi aprisse un nuovo punto di passaggio tra Egitto e Gaza», spiega l’attivista palestinese con passaporto egiziano Ibrahim al Kasher.

«Anche perché sostengono che, occupando il valico di Rafah, Israele abbia violato gli accordi del 1979. Ma l’interesse non sarebbe solo politico». Secondo l’attivista, la richiesta di aprire un secondo punto di passaggio sarebbe stata pubblicizzata a Gaza, e in particolare a Rafah, soprattutto per motivi economici.

A capo di questa nuova coalizione di tribù, infatti, c’è Ibrahim al Organi, lo stesso uomo d’affari proprietario dell’agenzia Hala che nelle prime settimane di guerra assicurava passaggi al Cairo al prezzo di 5mila dollari a persona.

«Guarda caso – spiega Al Kasher – è proprio lui che si sta spendendo molto, anche in prima persona con Al Sisi, per ripristinare i traffici. Chiaramente», aggiunge, «il suo interesse è quello di riprendere il business delle partenze a costi esorbitanti. Poi ci sono i rifornimenti, certo», conclude l’attivista. Durante i primi mesi di guerra il nome di Al Organi era diventato famoso in tutta la Striscia: l’uomo d’affari più potente del Sinai prometteva la salvezza. Eppure, oggi, con Gaza semidistrutta e migliaia e migliaia di morti, i volantini che pubblicizzano l’apertura di una nuova via di fuga restano in aria, a svolazzare tra i rifiuti.

Il Sinai

«Al Organi non ha più nessuna credibilità a Gaza», racconta il giornalista Hassan Isdodi. «Si è fatto pagare migliaia di dollari da tante famiglie, e molti tra coloro che avevano sborsato l’enorme cifra non sono mai riusciti a passare. Oppure è capitato che siano passate solo due persone per famiglia e gli altri abbiano ereditato pesanti debiti da ripagare».

Secondo le fonti, il traffico di profughi avrebbe fatto guadagnare all’agenzia Hala 118 milioni di dollari sulla pelle dei palestinesi. Non più uomo della speranza, dunque, ma spietato affarista che da un lato tende la mano al popolo di Gaza, dall’altro strizza l’occhio al governo del Cairo.

Che profughi palestinesi in massa non ne vuole per nessuna ragione. Anche la costruzione di una nuova città proprio al di là del confine con Gaza sarebbe parte del piano di Al Organi per fare il doppio gioco: un po’ amico dei palestinesi, un po’ alleato di Al Sisi. Basta riuscire nell’intento di prendere il potere in tutta la regione.

La notizia di lavori di sbancamento del terreno nella parte egiziana di Rafah era circolata a Gaza già a febbraio. «Per alcune settimane», spiega il giornalista Isdodi, «si è pensato che Organi volesse costruire un nuovo campo profughi per i rifugiati. E molti di noi credevano, quindi, che l’alto costo del “biglietto” per attraversare il valico valesse quanto la certezza di una nuova casa». Il ragionamento filava. Ma quella convinzione si è sbriciolata insieme a una casa colpita da una bomba.

«Sappiamo che nell’ultimo mese i lavori nella zona di Al Aljaa hanno subito un’accelerazione improvvisa», spiega l’attivista Ibrahim al Kasher, «e abbiamo scoperto che anche la ditta che sta costruendo tutto è di proprietà di Organi, si chiama Sons of Sinai».

La città sta prendendo forma. A inizio maggio, infatti, mentre a Gaza l’Idf bombardava, a pochi chilometri si svolgeva una grande celebrazione per presentare il progetto della nuova città. «C’erano tutti i rappresentanti dell'Unione delle tribù arabe», racconta al Kasher, «e c’era Ibrahim al Organi, arrivato su una Cadillac seguita da un apparato di sicurezza quasi presidenziale». Secondo i media egiziani, la città si chiamerà Sisi City, in onore del presidente, e non ospiterà i profughi palestinesi.

«Al Organi ha illuso il popolo di Gaza e intanto ha fatto i suoi affari con il governo egiziano», ha spiegato Hassan Isdodi. L’obiettivo di Organi è prendere il potere nella regione del Sinai, che da molti anni è oggetto di contesa, e nello stesso tempo assicurare ad al Sisi che la penisola non diventerà, per la comunità internazionale, la soluzione per la guerra di Israele.

Mentre sul versante egiziano le ruspe costruiscono, dall’altro lato di Rafah le bombe distruggono. Tra qualche settimana 39mila studenti di Gaza avrebbero dovuto sostenere l’esame di maturità per poi iscriversi all’università, ma non potranno farlo. La guerra ha cancellato il loro presente e forse anche il loro futuro.

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