Il presidente Raisi telefona al papa dopo che si erano già sentiti i ministri degli esteri di Iran e Vaticano; la Chiesa di Roma può fare da tramite fra Teheran e Washington per un cessate il fuoco, la chiave per l’accordo e per convincere Israele restano però gli ostaggi nelle mani di Hamas. Nessuno, ad oggi, vuole l’allargamento del conflitto, l’Iran punta a consolidare il proprio primato nella regione
Francesco ieri è stato vittima di un “raffreddore”, o di un malessere, tanto rapido da far sorgere il sospetto che si fosse trattato di una sorta di malattia diplomatica. Nella mattinata di ieri, infatti, il papa doveva incontrare in udienza la Conferenza dei rabbini d’Europa; l’incontro si è poi effettivamente svolto, ma il pontefice, causa raffreddore, non ha letto il discorso ufficiale e ha voluto salutare personalmente i rabbini.
Il discorso, che conteneva riferimenti al conflitto in Terra Santa e ai rigurgiti di antisemitismo che si registrano in varie parti del mondo, è stato comunque diffuso dalla Sala stampa della Santa sede. Qualche ora più tardi, però, un papa apparentemente rimesso ha incontrato nell’aula Paolo IV una delegazione di migliaia di bambini dal tutto il mondo. Ha letto un discorso e risposto a braccio alle loro domande, facendo dimenticare il precedente malessere.
C’è chi ci ha letto un abile modo di districarsi nella complicata tela diplomatica. La Santa sede, infatti, ha aperto un canale di comunicazione con Teheran per arrivare a una cessazione delle ostilità nella guerra che sta infiammando Gaza e Israele. Domenica c’è stato un colloquio telefonico fra il presidente iraniano Ebrahim Raisi e il papa a proposito di quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza, mentre il 30 ottobre scorso era intercorsa un’altra telefonata fra il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir Abdollahian, e Paul R. Gallagher, segretario per i Rapporti con gli stati della Santa sede. Le autorità iraniane hanno apprezzato in modo particolare la posizione del Vaticano favorevole a un cessate il fuoco dovuta al forte allarme per la crisi umanitaria. In realtà il pressing dell’Iran sulla Santa sede dimostra in primo luogo il coinvolgimento di Teheran nel conflitto, il suo essere controparte diretta in quanto sostenitrice di Hamas, e mostra dunque la sua autorevolezza nell’intervenire sulla scena internazionale.
L’agenzia iraniana Irna, dando notizia del colloquio telefonico fra Raisi e il papa, spiegava come, dopo aver denunciato i crimini di Israele, il presidente dell’Iran, avesse «promesso di utilizzare tutto il potenziale diplomatico per fermare immediatamente gli attacchi e inviare aiuti umanitari a quella regione».
Espressione di chi sa di giocare un ruolo da protagonista nella vicenda. Per altro la Santa sede ha preferito non dare una propria versione del contenuto del dialogo intercorso fra i due leader, limitandosi a confermare la telefonata.
Attivismo vaticano
Non così era andata quando a parlarsi erano stati i due ministri degli esteri; in quella occasione, infatti, il Vaticano aveva fatto sapere che Gallagher «ha espresso la seria preoccupazione della Santa sede per quanto sta accadendo in Israele e in Palestina, ribadendo l’assoluta necessità di evitare di allargare il conflitto e di addivenire alla soluzione dei due Stati per una pace stabile e duratura nel Medio Oriente».
Dunque, da parte della leadership teocratica e politica iraniana, vi è anche, e necessariamente, la ricerca di interlocutori possibili in occidente in grado di esercitare una pressione diplomatica, una sorta di moral suasion, su Israele e sugli Stati Uniti; anzi è probabile che la Santa Sede sia fra i pochi soggetti in grado di fungere da tramite fra gli ayatollah e la Casa Bianca, considerato che quest’ultima sembra allo stato dei fatti l’unica capace di condizionare la reazione militare del governo di Benjamin Netanyahu.
D’altro canto, nei giorni scorsi, a conferma dell’attivismo diplomatico vaticano, sono stati resi noti altri colloqui telefonici del papa: il 2 novembre col presidente palestinese Mahmoud Abbas, il 26 ottobre con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il 22 ottobre con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden.
Teheran e Washington
Per l’Iran, in ogni caso, la questione è seria: se infatti le operazioni militari israeliane dovessero proseguire a Gaza, il rischio sarebbe una sconfitta senza precedenti per Hamas con un numero incalcolabile di perdite fra i civili palestinesi. Il che metterebbe Teheran nella difficile situazione di dover accettare o meno l’allargamento della guerra sul fronte libanese con l’intervento diretto di Hezbollah. Un allargamento che, ad oggi, nessuno vuole: né l’Iran, né il leader di Hezbollah Nasrallah che da Teheran dipende, né la Casa Bianca, né gli altri paesi dell’area mediorientale, né l’Europa e neanche Israele.
Anche perché la politica iraniana nella regione, in questa fase, è di allargamento e consolidamento della propria presenza, dall’Iraq alla Siria passando per il Libano. Così, mentre si consuma un drammatico conflitto sul terreno e prosegue la battaglia della propaganda con rimpallo delle responsabilità fra Tel Aviv e le milizie di Hamas, la Santa sede con la sua presenza storica in Terra Santa, sembra fra i pochi interlocutori che può fungere da ponte, da canale di dialogo, fra Teheran e Washington. Certo, al di là delle migliaia di vittime civili che si contano nella trappola di Gaza e per le quali si fa sentire la naturale preoccupazione della chiesa di Roma, il tema chiave per ogni possibile negoziato resta quello degli ostaggi; non a caso il papa in ogni suo intervento ripete sempre, insieme all’appello per il cessate il fuoco, la richiesta della liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas.
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