Giorgia Meloni vuole replicare la maggioranza italiana in Europa anche se il centro di gravità rimarrebbero i popolari. L’idea è di liberare le destre continentali dall’irrilevanza a cui si sono condannate con il loro euroscetticismo. Per questo, come scrive Giovanni Orsina, si devono mettere sul tavolo “temi duri” come la sovranità economica e militare, energia o materie prime, sui quali Meloni già si cimenta in Italia, ai quali aggiungerei la fiscalità e la gestione del debito.

È noto che tra le destre in Europa su tali materie non c’è sempre accordo. La guerra in Ucraina ad esempio vede posizioni frastagliate nel gruppo dei conservatori (Ecr) e ancor di più dentro identità e democrazia (Id). Orban stesso creò imbarazzi addirittura nel Ppe. Sull’autonomia strategica l’attuale governo italiano sembra più vicino a Macron che a Le Pen, e l’offerta francese di un ombrello nucleare per tutta l’Unione va in tale direzione.

Anche sulla sovranità economica ci sono difformità: sovranità nazionale o continentale? Come orientarsi in un mondo ancora a metà del guado tra globalizzazione e reshoring? Le relazioni con la Cina creano polemica, come sappiamo. Nondimeno la destra europea –ma sarebbe meglio dire le destre al plurale– sta riflettendo sulla visione di Europa da proporre agli elettori.

Fuor di propaganda (con slogan del tipo “riprendiamoci il controllo” usata durante la Brexit ma oggi quasi scomparsa), la domanda rimane: cosa significa “Europa delle nazioni”, marcatamente confederale, quando la pandemia e soprattutto le guerre ci stanno spingendo in senso opposto, sempre più a unirci (magari anche controvoglia)? La sinistra socialdemocratica assieme ai popolari finora ha stabilito un compromesso con i poteri forti economici, a cui i liberali di Renew hanno ovviamente aderito: un patto con il mercato, la Bce o la Commissione per le regole di bilancio, la questione del debito, l’austerità, ecc. I vari compact sono tutti basati su tale patto, con la sola eccezione dei tempi pandemici.

Il passato

In Italia il punto più alto di questa politica è stato incarnato dal governo di Mario Monti, che ha salvato il nostro paese dallo sganciamento. È bene rammentare infatti che potevamo non solo finire sotto ipoteca, ma addirittura essere lasciati sul ciglio della strada dagli altri stati membri. Giusto o sbagliato che fosse, nel novembre 2011 la nostra reputazione era pari a zero.

Per fare cessare ogni polemica su quei fatti basta dire che, come sappiamo tutti, talvolta la percezione della realtà è più forte della realtà stessa (che pure c’era). Le destre europee hanno sempre contestato l’impostazione tecnocratica. Oggi non vogliono fare la fine della sinistra che è uscita svigorita da tale compromesso, il quale l’ha resa – agli occhi di molti elettori – irriconoscibile: troppo conformista e priva di spinta ideale.

Prova ne sia che le sinistre europee non sono riuscite nemmeno a far passare il minimo principio di solidarietà sulla questione migratoria, ma anzi si sono divise e in taluni casi hanno imitato la destra. Qui sta il dilemma attuale delle destre europee: non perdere identità politica. Stringere un patto con il mercato, la Bce e/o la Commissione significherebbe normalizzarsi e dimettere l’atteggiamento un po’ eretico e ribelle che ha offerto loro la vittoria elettorale.

Non basta aspettare ciò che accadrà negli Stati Uniti a novembre: l’interrogativo è urgente, il problema di lunga portata e non tattico (un eventuale Trump non può aiutare). Da tempo le destre europee incarnano una spinta anti establishment e antitecnocratica, favorevole al libero arbitrio del “popolo”. Occorre – ripetono – tornare alla politica. Sì, ma quale? Si è consapevoli che un po’ di populismo va bene per vincere le elezioni ma non serve per governare. Altrimenti si rischia la demagonia, come scrive Monti nel suo ultimo libro, di cui è consigliabile la lettura.

Durante questa campagna elettorale abbiamo visto allargarsi alcune crepe: il discorso del presidente argentino Javier Milei, alla convention di Vox in Spagna, totalmente filo mercato e anti stato, non è né potrà mai essere accettabile per Marine Le Pen che crede nello stato come principio cardine. Può mai esserlo per la destra italiana? Anche sulla laicità ci sono enormi diversità, così come sui valori in una società che inesorabilmente diventa più fluida nei comportamenti e nelle identità. In altre parole fare la sintesi a destra non è certo più facile che farla a sinistra.

L’unica differenza – e non è poco – è che la sinistra si deve ancora liberare da molto conformismo che la ingessa (è lo sforzo di Elly Schlein in Italia), mentre la destra sta sperimentando con maggior vigore. Nel caso italiano, il ruolo di Antonio Tajani – grande esperto di cose europee – andrà crescendo anche al di là del risultato elettorale di Forza Italia. Non a caso numerosi moderati e conservatori europei stanno attenti a come procede la collaborazione con Giorgia Meloni e prendono appunti. Per loro stessa essenza le destre partono dal timore di una società troppo queer, fluida e cedevole, che fugge dai valori tradizionali.

Cambiamenti antropologici

Il problema è però che anche a destra ci si rende conto di quanto il cambiamento antropologico sia in corso da tempo: se cavalcarlo non porta a nulla (già ci prova senza successo una parte della sinistra), opporvisi è altrettanto illusorio.

Andrebbe creata una nuova cultura politica per interpretare il nostro tempo che ancora non esiste e che certo non può essere il wokismo. Siamo una società senza padri, come dicono gli psicanalisti e i sociologi: non si torna più allo “stato padre” autorevole e rispettato di una volta. All’apparenza ciò favorisce i libertariani alla Milei che lo vogliono distruggere del tutto, ma una società o uno stato che si sfibrano creano immensi problemi che non influenzano solo la vita sociale, ma anche l’economia e la geopolitica internazionale. Siamo in un mondo di realtà ibride dove regna l’autonomia generalizzata, nel senso che ognuno – soprattutto gli stati – fa quel che gli pare; i blocchi e le alleanze si disgregano e ciascuno insegue affannosamente l’interesse mutevole del momento.

Ciò dipende anche dal divorzio che si è consumato tra cultura e politica, un binomio che ha caratterizzato gli anni del post Seconda guerra mondiale e che ha creato l’intelaiatura multilaterale oggi in crisi. Attraverso le grandi culture politiche milioni di europei si sono sentiti parte di un futuro comune. Oggi nella “globalizzazione difficile” siamo tutti un po’ spaesati, alla ricerca di identità, ridotti al culto del sé, del gender, del territorio o ostaggi della contrapposizione (contro nemici reali, creati apposta o immaginari). In Europa prevale una cultura del vuoto, del niente o del presentismo e certamente non della storia. Il liberismo economico si è sposato con il mito dell’io senza limiti, mito di un eterno presente, senza passato o futuro. Ma la politica non può inseguire costantemente gli umori: ci sono molti modi per farlo – di destra e di sinistra – che conducono inevitabilmente al narcisismo o al personalismo. Tra l’altro la bacchetta magica del sovranismo impallidisce davanti al resto del mondo: oggi tutti sono sovranisti ma anche antioccidentali o antieuropei.

L’accusa dei sovranisti globali all’Europa è di essere stata coloniale e di rimanerlo. Ecco allora che l’esistenza della Unione europea diviene una protezione e addirittura un miracolo controcorrente in un mondo ostile che si frammenta. L’antieuropeismo rischia di divenire un suicidio politico. Davanti a tale dilemma, l’opzione della nostalgia non funziona: la storia non torna indietro e l’Europa deve guardare avanti, trovando nuove modalità per confrontarsi con il resto del mondo. Per tali ragioni il dibattito in corso a destra interessa e coinvolge tutti: come convivere senza rinunciare a sé stessi, come salvare l’identità nazionale connettendola con quella europea? Come farsi forti dell’Europa in un mondo che sfugge a ogni etichetta? Domande che la destra si sta ponendo, ma valide anche al centro o a sinistra.

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