- La necessità per la Russia di mantenere il proprio ruolo nell’Europa sud-orientale porta Putin a investire straordinarie energie per un’ampia captatio benevolentiae di nazioni e paesi di questa regione, con indubbi risultati.
- Leader storici, come Orbán in Ungheria e Vučić in Serbia, pur provenendo da posizioni politico-ideologiche differenti, hanno trovato in posizioni “dialoganti” con Mosca la chiave del proprio successo anche nelle ultime elezioni dell’aprile 2022.
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Il caso della Serbia si presenta ancora più pro-Russia: ancora oggi la maggior parte della popolazione non ha infatti dimenticato i bombardamenti del paese da parte della Nato più di vent’anni fa, evocando per contraltare la tradizionale solidarietà dei fratelli maggiori russi. Il testo fa parte del numero di Scenari “Le terre di mezzo”: in edicola e in digitale dal 15 luglio.
L’interesse russo per i Balcani ha una dimensione strutturale: con Federico Chabod potremmo dire che sono “interessi permanenti” quelli che portano un paese (una nazione, un impero) a concentrarsi su una direttrice costante, di controllo geopolitico (territoriale, economico, strategico).
Quello russo, imperiale e zarista, aveva come priorità quella dell’accesso ai mari caldi: verso gli Stretti, il mar Nero, verso il Mediterraneo, via mare e via terra. Dunque, anche attraverso i Carpazi nei Balcani, dove la proiezione imperiale slavo-ortodossa ha risposto da sempre alla chiamata religiosa (degli ortodossi, contro cattolici e musulmani) e pan-slava (degli slavi meridionali contro turchi e germanici).
L’Unione sovietica ha colorato questa necessità con l’imposizione del modello comunista moscovita, fino alla “scomunica” da parte di Stalin del comunismo titoista nel 1948 e poi di Chruscev di quello ungherese nel 1956. Ma la necessità per la Russia di mantenere il proprio ruolo nell’Europa sud-orientale porta Putin – prima e dopo il 24 febbraio scorso – a investire straordinarie energie per un’ampia captatio benevolentiae di nazioni e paesi di questa regione, con indubbi risultati. Leader storici, come Orbán in Ungheria e Vučić in Serbia, pur provenendo da posizioni politico-ideologiche differenti (il primo era leader dei giovani liberali alla caduta del regime comunista, il secondo, più giovane, giornalista e ministro dell’Informazione durante la repressione di Slobodan Milosevic ai danni del Kosovo), hanno trovato in posizioni “dialoganti” con Mosca la chiave del proprio successo anche nelle ultime elezioni dell’aprile 2022.
L’Ungheria di Orbán
È il caso dell’Ungheria di Viktor Orbán: con la quarta vittoria elettorale (la quinta in termini assoluti) il premier uscente ha ricevuto le congratulazioni del presidente russo Vladimir Putin e così sugellato un’intesa ormai pluriennale di Mosca. «Abbiamo vinto contro il globalismo. Contro Soros. Contro i media mainstream europei. E anche contro il presidente ucraino», ha dichiarato a caldo Viktor Orbán commentando la vittoria elettorale, conseguita con il suo partito Fidesz e gli alleati di sempre (il Partito popolare cristiano democratico: l’“Alleanza della solidarietà ungherese” Fidesz-Kdnp) con circa il 53 per cento dei consensi.
In realtà la guerra in Ucraina ha ridato al leader dei “giovani liberali”, poi “conservatori, cristiani, patriottici”, un maggiore spazio politico fino a poco fa logorato dalla permanenza al potere, dalla crisi e dalla pandemia. Anche la visita di Orbán a Mosca, alla vigilia del conflitto e avvenuta il 1° febbraio (durante le tensioni precedenti all’invasione del 24 febbraio), ha assunto connotati sinistri: i rumors diffusi in seguito sui temi riservati affrontati nell’incontro Putin-Orbán, infatti, evocherebbero con l’eventuale prospettata invasione dell’Ucraina da parte di Mosca una proposta di “spartizione” a Budapest, per la riassegnazione dell’ex provincia ungherese della Transcarpazia, la regione più occidentale del territorio ucraino al confine con l’Ungheria, abitata da minoranze magiare e chiamata Kárpátalja.
Nel post-24 febbraio Budapest si è attivata energicamente per l’accoglienza dei rifugiati ucraini ma si è detta prima contraria all’invio di armi e al loro passaggio attraverso il confine ungaro-ucraino, poi nella condivisione dei pacchetti di sanzioni europee si è distinta con il veto al blocco del gas russo, motivando la propria posizione nell’Ue con la priorità dell’interesse nazionale dell’autonomia energetica.
Sono d’altronde le posizioni che hanno permesso allo storico leader del Fidesz sei settimane di campagna elettorale di grande efficacia: durante l’ultimo mese di campagna, quando le opposizioni riunite per la prima volta in un unico blocco anti-Fidesz sembravano vedere possibile il cambio al regime Orbániano, Viktor Orbán da navigato politico e soprattutto da profondo conoscitore delle speranze e delle paure della “piccola” Ungheria novecentesca, ha rilanciato con la formula elettorale, «per la pace e la sicurezza dell’Ungheria» (Béke és Biztonság) i vantaggi economici dell’approvvigionamento di gas e petrolio russi insieme con l’ombrello di sicurezza di difesa collettiva della Nato. Una parte importante degli ungheresi stessi si sono così convinti che in un contesto tanto rischioso e liquido (memori, forse, anche della pericolosa vicinanza di Mosca e della drammatica esperienza del 1956) sia meglio tenersi una leadership esperta e pragmatica come quella di Viktor Orbán, amico personale di Putin e già leader anticomunista dell’Ungheria membro della Nato.
L’asse della convenienza del gas russo, attraverso Budapest, arriva fino a Belgrado, dove proprio questi giorni si cominciano a contare i primi metri cubi dei 500 milioni previsti dalla fornitura Gazprom a favore della Serbia, in stoccaggio in territorio ungherese (grazie alla sintonia e agli accordi tra Orbán e Vučić).
La Serbia di Vučić
Il caso della Serbia si presenta ancora più pro-Russia: ancora oggi la maggior parte della popolazione non ha infatti dimenticato i bombardamenti del paese da parte della Nato più di vent’anni fa, evocando per contraltare la tradizionale solidarietà dei fratelli maggiori russi (come nel murale comparso nelle strade della capitale che rappresenta Putin con la didascalia brat, “fratello”).
Alle elezioni dello scorso 3 aprile anche in Serbia ha trionfato per la seconda volta consecutiva il presidente Aleksander Vučić, nazionalista e leader del Partito del progresso serbo (Sns), con circa il 60 per cento delle preferenze. Una vittoria schiacciante quella di Vučić, che ha promesso ai suoi elettori un governo stabile, forte, ma soprattutto una ferrea volontà di mantenere buone relazioni con la Russia, proseguendo per quanto possibile sulla strada della neutralità militare di fronte al conflitto in corso in Ucraina.
Dallo scoppio del conflitto, infatti, in Serbia si è realizzato un “esodo” di cittadini russi che hanno aperto più di mille società, soprattutto nell’area della capitale Belgrado. Vučić, inoltre, con il prolungamento delle trattative e del processo di formazione del nuovo governo, sta procrastinando di fatto l’introduzione delle sanzioni richieste dall’occidente. Per la Serbia di Vučić l’Europa rappresenta il partner ideale per gli scambi commerciali, ma la Russia è chiaramente l’alleato perfetto e affidabile in grado di tutelare gli interessi nazionali serbi e la questione del Kosovo, arrivata a un punto di stallo e che trova nella domanda di adesione di Pristina al Consiglio d’Europa, apertamente osteggiata da Belgrado, l’ultimo terreno di confronto serbo-kosovaro.
Nel frattempo, Vučić sta cercando di mantenere vivi e proficui i rapporti non solo con la Russia e con l’Ue ma anche con i paesi limitrofi: in quest’ultimo ambito Belgrado ha promosso l’iniziativa “Open Balkan” con Nord Macedonia e Albania, finalizzata ad accelerare l’allargamento dell’Ue ai Balcani occidentali, pragmaticamente scavalcando Pristina e dialogando direttamente con il governo albanese di Edi Rama.
Mosca è dunque il punto di riferimento permanente, culturale e storico per Belgrado: la Serbia può contare sulla Russia per la questione kosovara (in difesa dell’integrità del territorio serbo, includente il Kosovo) ma allo stesso tempo anche per la percezione che, come per la Russia l’Ucraina è una “non” nazione, così per la Serbia la Bosnia-Erzegovina risulta un failed state, in cui la componente serbo-ortodossa (quella della Repubblica sprska) analogamente a territori come una Crimea o un Donbass abitato da russi ma impropriamente in territorio ucraino, sia destinata a riunirsi alla madrepatria.
La Russia è inoltre il paese di maggiore affidabilità per l’approvvigionamento energetico: la Serbia, infatti, dipende per circa il 90 per cento dalla Russia e l’industria petrolifera serba, l’Naftna Industrja Srbije (Nis), è controllata al 56 per cento da Gazprom.
Vučić nel corso dell’anno è riuscito a strappare a Putin un eccellente prezzo per il gas russo (pari a 270 dollari per mille metri cubi), e può contare di pagare il gas un terzo, ma in prospettiva fino a un decimo del prezzo proposto ad altri compratori.
Per il popolo serbo la Russia è la grande nazione slava, cristiana, ortodossa, amica e protettrice nei secoli delle popolazioni ortodosse dei Balcani, parte integrante della coscienza nazionale. L’Ungheria di Orbán, come la Serbia di Vučić, sono ancora, e una volta di più, paesi che pongono particolari esigenze nazionali e geostrategiche, e a cui i partner euro-atlantici dovranno in qualche modo rispondere.
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