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La decisione della Corte suprema russa di liquidare con un processo farsa Memorial internazionale – la più importante associazione per la memoria del terrore politico sovietico e i diritti umani del paese, ora vincitrice del premio Nobel – è stato un evento drammatico per la Russia.
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Se la pronuncia in appello la confermasse, si chiuderebbe definitivamente una fase storica di speranze nel cambiamento e nel rifiuto del totalitarismo iniziata durante la perestrojka.
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La liquidazione di Memorial, però, non è solo l’ennesimo atto contro la libertà d’espressione in Russia degli ultimi mesi. Il suo significato va ben al di là.
La decisione della Corte suprema russa di liquidare con un processo farsa Memorial internazionale – la più importante associazione per la memoria del terrore politico sovietico e i diritti umani del paese, ora premiata con il premio Nobel per la pace – è stato un evento drammatico per la Russia, dalla portata simbolica enorme.
È stata la chiusura definitiva di una fase storica di speranze nel cambiamento e nel rifiuto del totalitarismo iniziata durante la perestrojka, che Memorial ha incarnato più di ogni altra organizzazione.
Ricostruire la memoria
Dal momento della sua nascita negli anni Ottanta, i membri di Memorial si sono dati l’obiettivo, gigantesco, di ricostruire la memoria di milioni di persone accusate ingiustamente, scomparse, deportate, morte per indigenza durante il regime sovietico in tutta l’Urss. Destini di cui i familiari delle vittime non avevano saputo, né mai potuto chiedere, nulla per decenni, e che nel loro essere sconosciuti hanno alimentato un trauma collettivo che ha attraversato le generazioni e che pesa ancora oggi in Russia e nelle altre ex repubbliche sovietiche.
Con interviste alle vittime, ai parenti, e soprattutto grazie all’apertura degli archivi sovietici negli anni Novanta, Memorial è stata fondamentale per iniziare a colmare questo vuoto e creare una coscienza comune dell’entità e gravità dei crimini commessi dal regime sovietico, in particolare sotto Iosif Stalin negli anni Trenta e Quaranta: ha ridato un nome a milioni di persone scomparse; aiutato migliaia di familiari ad accedere a dossier di parenti che pensavano non avessero lasciato tracce; permesso di attaccare di recente targhe sulle facciate dei palazzi moscoviti e di altre città per ricordare chi non era mai più tornato a casa cinquant’anni prima, e perché.
Negli anni gli attivisti di Memorial hanno anche denunciato regolarmente abusi da parte del governo russo sui propri cittadini, a partire dalle violenze perpetrate durante i due conflitti ceceni.
Senza sorprese, il 29 dicembre il Tribunale di Mosca ha deciso che anche il Centro per i diritti umani affiliato all’organizzazione – che tra le altre cose dà assistenza a prigionieri politici non riconosciuti come tali dalla Russia – debba essere chiuso perché, a leggere la sentenza, giustificherebbe «il terrorismo e l’estremismo».
La liquidazione di Memorial, però, non è solo l’ennesimo atto contro la libertà d’espressione in Russia degli ultimi mesi. Il suo significato va ben al di là.
Anche guardando all’autoritarismo crescente del regime putiniano, non era inevitabile che le autorità decidessero di ostacolare attivamente la denuncia e lo studio delle repressioni politiche sovietiche, una delle più importanti conquiste della perestrojka.
Il fatto che a trent’anni dal crollo dell’Urss la memoria della morte di milioni di cittadini sovietici rappresenti invece una minaccia per la visione della storia che il Cremlino vuole imporre e controllare, certifica come Putin sia stato incapace di fondare una nuova Russia, che la soluzione più semplice in mancanza di altro sia stata quella di rifugiarsi in un passato che non tornerà, e come per il putinismo questo sia un punto di non ritorno.
Da quando per rivendicare lo status di grande potenza della Russia, invece di far parlare i fatti oggi, il Cremlino si limita a celebrare la vittoria sovietica sul nazismo, non è semplicemente più possibile, dal punto di vista della propaganda ufficiale, ammettere la portata dei crimini staliniani. I limiti di questa visione (molto) edulcorata della storia, però, sono evidenti.
Al di là dell’importanza per un paese di fare i conti con il proprio passato, è proprio dal riconoscimento progressivo di come i russi siano stati, alla stregua delle altre popolazioni dell’Urss, tragicamente vittime di una macchina statale del terrore, che la Russia può e deve fondare la sua identità post-sovietica. Creare invece questa linea diretta e fittizia tra Unione sovietica e Russia contemporanea isolerà (è già evidente) sempre di più il paese, ostacolandone qualunque concreta velleità di grandezza. Darà peraltro man forte a chi, in occidente e nelle ex repubbliche sovietiche, propone una visione semplicistica della Russia di oggi, alimentando ulteriormente le incomprensioni reciproche.
Infine, e in ogni caso, Memorial non è finito con Memorial, come il Nobel ha dimostrato: gli attivisti, gli storici, i discendenti delle vittime continueranno a cercare e raccogliere informazioni sugli eventi e i crimini sovietici.
Anche se la parentesi “liberale” iniziata con la perestrojka si è chiusa, la lezione di quel periodo resta valida: lo sforzo delle autorità di occultare il passato invece di superarlo non solo è vano, ma è rischioso, perché nel momento in cui la manipolazione della verità (che prima o poi viene alla luce) non viene più tollerata, i suoi effetti finali possono essere dirompenti.
Questo articolo, originariamente pubblicato il 7 gennaio 2022, è stato aggiornato con la notizia della vittoria del Nobel per la Pace.
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