Secondo una convinzione a lungo diffusa, la globalizzazione e un mercato integrato guidato dai princìpi del liberalismo avrebbero agito da fattori di prevenzione e deterrenza del “fenomeno-guerra”. Infatti, in un contesto globale sempre più interconnesso, il ricorso alla violenza interstatale come strumento risolutivo delle dispute internazionali è stato considerato un’opzione meno razionale in termini di costi-benefici che in passato e, quindi, meno probabile. Tuttavia, la guerra in Ucraina ha tragicamente smentito questa convinzione.
Con la fine della Guerra fredda, le diverse amministrazioni statunitensi si sono confrontate ripetutamente con due questioni complementari: come ottenere dalla Russia il riconoscimento del primato globale americano e, contestualmente, come integrarla nei processi di globalizzazione? Il consolidamento del cosiddetto ordine liberale ha indotto Washington a tentare ripetutamente un avvicinamento a Mosca, con risultati altalenanti che hanno portato, in via definitiva dal 2014, a un’aperta ostilità tra le due potenze.
Tentativi e fallimenti
Negli anni Novanta, l’amministrazione Clinton aveva promosso una vera e propria politica del Russia first, ovvero una scelta di engagement costruttivo verso Mosca finalizzata a perseguire tre obiettivi prioritari: la denuclearizzazione dello spazio post-sovietico, la transizione democratica della Russia e il consolidamento di un’economia di mercato. Se il primo obiettivo è stato conseguito con un indubbio successo, gli altri due hanno visto un percorso altalenante.
Da un lato, la Russia in questa fase ha sperimentato tutte le fragilità di una democrazia in transizione, registrando con l’avvento di Vladimir Putin una progressiva involuzione autoritaria. Dall’altro, l’economia russa si è consolidata come un capitalismo di stampo neo-patrimoniale, con settori strategici dell’economia nazionale sotto il controllo di oligarchi, una classe media relativamente numerosa ma fragile e importanti fasce della popolazione che vivono di sussidi statali.
Con l’insediamento dell’amministrazione Bush, invece, la Casa Bianca ha promosso un approccio cauto alla Russia finalizzato a promuovere obiettivi più limitati ma più facilmente conseguibili. In particolare, il controllo degli armamenti, la creazione di un meccanismo di cooperazione tra Russia e Nato (il Nato-Russia Council) e il contrasto al terrorismo. Per la loro portata meno ambiziosa, tali obiettivi sono stati conseguiti, sebbene non siano mancate fratture e frizioni.
In particolare, l’invasione dell’Iraq nel 2003 ha rappresentato un primo momento di forte tensione, in virtù dell’opposizione russa a qualsiasi azione militare verso Baghdad. Nel 2004, l’espansione a est della Nato alimentò una crescente ostilità da parte di Mosca, che percepì più fragile la propria sicurezza. Da ultimo, l’esplosione delle Rivoluzioni colorate del 2003-2005 diede nuova forza al sentimento di accerchiamento, politico e militare, di Mosca da parte dell’occidente, denunciato nel 2007 dal celebre discorso alla Conferenza per la sicurezza di Monaco di Vladimir Putin, portando nel 2008 all’intervento russo in Georgia.
Negli anni dell’amministrazione Obama, la Casa Bianca tentò un nuovo dialogo con Mosca, ma ancora una volta i timidi risultati del primo mandato furono seguiti da un progressivo irrigidimento delle relazioni nel secondo. Nell’ottica di continuare il dialogo sul controllo degli armamenti, nel 2010 fu firmato il Trattato New Start per la riduzione delle armi strategiche, mentre Washington favorì nel 2012 l’ingresso della Russia nel Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, dopo quasi vent’anni dalla sua richiesta di adesione.
Nel secondo mandato di Obama, l’intervento russo in Crimea, a seguito di Euromaidan, provocò una profonda frattura nel rapporto tra le due potenze. Tale crisi fu ulteriormente alimentata dalla successiva operazione militare russa in Siria, che dimostrò la volontà russa di tornare a ricoprire un ruolo di primo piano anche al di fuori dello spazio post-sovietico. Infine, il tentativo di Mosca di influenzare le elezioni presidenziali del 2016 portò a un aspro contrasto con Washington, che diede nuovo impeto alla percezione statunitense della Russia come vero e proprio sfidante, insieme alla Cina, dell’ordine liberale.
Tali elementi portarono quindi l’amministrazione Trump a non tentare un reset delle relazioni con Mosca, reso impossibile anche dalla contemporanea esplosione del “Russiagate”, che avrebbe gettato un’ombra su qualsiasi iniziativa di engagement con Mosca. Con uno stile molto diverso, ma con gli stessi obiettivi e percezione delle minacce, l’amministrazione Biden, infine, ha dato seguito all’azione della presidenza Trump, considerando Mosca e Pechino le principali minacce alla stabilità dell’ordine liberale.
Gli effetti della guerra
Se, quindi, da una parte, la globalizzazione non è stata un contrappeso forte abbastanza da prevenire una disputa militare, dall’altra ha conferito maggior influenza economica e politica alla Russia, che non senza difficoltà è riuscita a mantenere il ruolo di importante fornitore di risorse energetiche per l’occidente, l’Europa in particolare.
Davanti al bivio tra la difesa dell’Ucraina e una maggiore integrazione in nome della globalizzazione, l’amministrazione Biden ha scelto il primo obiettivo, lasciando indietro il secondo. Ci troviamo, quindi, di fronte alla necessità di ripensare gli effetti della globalizzazione. E con l’ingresso di un numero sempre maggiore di attori, cambiano anche gli equilibri di potere.
Nei mesi passati abbiamo avuto la prova che gli effetti della guerra stanno avendo un riverbero globale, impattando sulle catene di approvvigionamento del mercato internazionale, ma anche le sanzioni imposte dall’occidente stanno incidendo significativamente sull’economia mondiale e sulla globalizzazione.
Le sanzioni sono state concepite per indebolire la capacità del governo russo di portare avanti la guerra in Ucraina, negandogli così l’accesso ai mercati globali essenziali per la finanza, la tecnologia, i beni e i servizi. I diversi pacchetti adottati finora hanno avuto tre finalità principali: il blocco dell’accesso ai mercati finanziari, l’adozione di misure contro singoli individui ai vertici del potere politico ed economico che sostengono il presidente Putin, e la limitazione alla partecipazione russa ai mercati internazionali di beni e servizi.
Le opzioni di Mosca
Di fronte al tentativo occidentale di contenere piuttosto che incoraggiare l’integrazione della Russia nell’economia globale e alla risposta russa di sottrarsi alla partecipazione a essa, Mosca ha davanti a sé due strade percorribili. Quella dell’autosufficienza economica e quella di una maggiore integrazione nel mercato non occidentale.
L’autosufficienza privilegia il controllo interno rispetto alla crescita economica derivata dal mercato globale integrato. Dal punto di vista economico comporta la riduzione e la sostituzione delle importazioni per favorire la produzione interna. Dal punto di vista politico, implicherebbe un rafforzamento del potere centrale e di conseguenza ulteriori pressioni e limitazioni all’opposizione. Non è chiaro quanto questo percorso possa essere sostenibile. L’economia russa rimane fortemente dipendente da diversi fattori internazionali, in particolare dal prezzo del petrolio e delle materie prime, mentre la sostituzione delle importazioni potrebbe rivelarsi inefficiente, portando a un ulteriore rallentamento economico che potrebbe scatenare il malcontento popolare.
Per quanto riguarda invece la maggiore integrazione nei mercati non occidentali, ciò potrebbe compensare sia il declino delle relazioni con l’occidente che gli effetti delle sanzioni, grazie a partnership commerciali e alleanze politiche, specialmente con i paesi dell’Asia. Tuttavia, il potenziale economico di questo tipo di relazioni geopolitiche non è ancora chiaro. Inoltre, la Cina ha già dimostrato un forte pragmatismo nei confronti della Russia. Il progetto della Belt and Road Initiative intensificherà ulteriormente il coinvolgimento cinese in Asia centrale e potrebbe generare rivalità economica e attriti politici con la Russia.
La Russia, pertanto, è ancora alla ricerca di una risposta coerente al fallimento della globalizzazione sovrana senza rinunciare ai princìpi su cui si basa. Quale che sia la strada che Mosca sceglierà di perseguire, o se combinerà questi due approcci, come sembra aver iniziato a fare, la globalizzazione assumerà una forma nuova. La nuova politica che emergerà rimodellerà le prospettive di sviluppo interno della Russia e le sue relazioni con l’occidente.
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