- Con la più importante riforma dello stato russo dal 1999, passata la scorsa settimana, Vladimir Putin lascia ai posteri un regime molto più autoritario di quello trovato due decenni fa.
- La legge colpisce innanzitutto i governatori regionali russi. Nonostante le elezioni dei leader delle entità territoriali siano dirette, il presidente potrà oramai, senza dare spiegazioni, licenziarli per sopravvenuta ‘mancanza di fiducia’ .
- Il sistema di potere e controllo sulle periferie disegnato dalla legge, all’apparenza efficiente, ha in effetti un limite fondamentale: la sua rigidità. Se il processo di ricentralizzazione era stato più o meno informale e negoziabile secondo i territori, ora l’intera architettura statale russa è retta da, e si basa su, la legittimità personale del presidente.
Con la più importante riforma dello stato russo dal 1999, passata la scorsa settimana, Vladimir Putin lascia ai posteri un regime molto più autoritario di quello trovato due decenni fa. La legge sull’unità del “potere pubblico” ridisegna interamente le relazioni tra Mosca e le regioni, tra potere esecutivo e legislativo, e si basa su un principio molto semplice: d’ora in poi, tutto fa capo al presidente.
Da un lato ratio e tempi non sorprendono. Redatta dai legislatori del partito di governo Russia Unita, la riforma dà forma scritta a una ricentralizzazione dei poteri in corso de facto da anni e cerca di dare stabilità a un sistema che, prima o poi, dovrà fare a meno di Putin. Dall’altro, però, le novità sono importanti e in futuro potrebbero, paradossalmente, contribuire a generare caos invece di scongiurarlo.
Governatori licenziabili
La legge colpisce innanzitutto i governatori regionali russi. Nonostante le elezioni dei leader delle entità territoriali siano dirette, il presidente potrà oramai, senza dare spiegazioni, licenziarli per sopravvenuta ‘mancanza di fiducia’ - a prescindere dall’esito del voto - e bloccare ogni loro iniziativa se da lui ritenuta in contrasto con la Costituzione o una legge federale (fino a un’eventuale decisione di un tribunale in senso contrario). I governatori non potranno poi farsi rinominare ‘presidenti’, misura che tocca direttamente il Tatarstan, l’unica repubblica in cui questo titolo è usato.
Più in generale, il potere esecutivo regionale perde ulteriore autonomia dal centro. Se già da alcuni anni i candidati governatori sono di fatto selezionati dal Cremlino e inviati da Mosca, ora anche nomine chiave dei governi delle regioni - sanità, finanza, ecologia - dovranno essere decise “in coordinamento” con gli organi federali.
I nuovi strapoteri presidenziali si estendono alle assemblee legislative, che il capo dello stato può sciogliere e di cui può intralciare l’attività ponendo il veto su leggi già approvate. I deputati regionali acquisiscono poi - loro malgrado - lo status di pubblici ufficiali, il che significa stretto controllo su propri conti e attività e molti più ostacoli e condizioni per partecipare alle elezioni locali.
Meno poteri a livello locale
Lo svuotamento dei poteri dei parlamenti regionali è probabilmente la parte più rilevante della riforma. Oltre a essere in linea con l’indebolimento progressivo del parlamento federale a vantaggio del governo, è proprio nei contesti locali, dalla regione di Novosibirsk a quella di Chabarovsk, che gruppi di opposizione sono riusciti, o hanno provato, a organizzare seppur piccole proteste antigovernative e ad eleggere deputati. In un clima di crescente autoritarismo, soprattutto dall’incarcerazione del politico Aleksej Navalny e la messa al bando della sua fondazione l’anno scorso, la mobilitazione locale non è più tollerata.
Per quanto sia passata nel giro di soli due mesi, la legge è stata accolta male in quelle repubbliche e territori della Federazione che godono di status privilegiati. Il parlamento del Tatarstan, la repubblica più ricca del paese, i cui deputati sono in larga maggioranza di Russia Unita, ha votato all'unanimità contro la prima versione del testo. Le assemblee regionali di Archangel’sk e Tjumen’ hanno preteso garanzie sull’autonomia finanziaria delle entità territoriali ricche di risorse naturali al loro interno.
Durante il ventennio putiniano le richieste e frustrazioni delle leadership locali, abituate ad avere pieno controllo dei loro feudi negli anni di Boris El’tsin, sono state gradualmente messe a tacere. La nuova legislazione sui poteri pubblici, però, potrebbe aprire una nuova fase di rivendicazioni nazionali e instabilità politica.
Il sistema di potere e controllo sulle periferie disegnato da questa legge, all’apparenza efficiente, ha in effetti un limite fondamentale: la sua rigidità. Se prima il processo di ricentralizzazione, per quanto evidente, era stato più o meno informale e negoziabile secondo i territori, ora l’intera architettura statale russa è retta da, e si basa su, la legittimità personale del presidente.
Nel caso di indebolimento dell’autorità centrale, di Putin nei prossimi anni e, ancora di più, dei suoi successori, la verticale di potere rischia di incepparsi, come si è inceppata quella del Partito comunista sovietico negli anni Ottanta.
In cambio della lealtà
C'è inoltre un limite alle pressioni che il Cremlino può permettersi di imporre alle repubbliche e regioni, soprattutto non offrendo nulla di concreto in cambio della lealtà, a partire da un miglioramento evidente delle condizioni economiche. Di fronte all’impossibilità di fare politica, una maniera per le élite locali di sfuggire almeno in parte al controllo di Mosca sarà quella di ritirare fuori la questione etnico-identitaria degli anni Novanta, pretendendo forme di autonomia inizialmente culturali e linguistiche (che il Cremlino dovrebbe concedere), per poi espandersi ad altri settori.
A sua volta, il riemergere di questioni nazionali potrebbe creare divisioni all'interno Russia Unita e indebolire da dentro la piramide artificiosamente monolitica del potere decisionale.
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