Nel 2016 si trovava a Juba, in uno dei momenti più acuti della guerra civile nel paese, per una consulenza per una ong americana. Alloggiata in un compound certificato «sicuro» dall’Onu, è stata ripetutamente stuprata da almeno cinque soldati e torturata per molte ore, vedendo altre persone morire. Messa in salvo, dopo un risarcimento minimo da parte sudsudanese, per lei inizia un secondo calvario fatto di umiliazioni e rimandi oltraggiosi da parte dell’Italia. L’ultima novità: l’udienza sulla sua vicenda è stata rinviata per l’ennesima volta
Sopravvivere all’inferno e scoprire che, oltre ad affetti e amici, non interessa a nessuno. Sperimentare sulla propria pelle la violenza di milizie senza scrupoli e continuare a subirla da parte delle istituzioni e dello stato, indifferenti se non ostili. È questa la paradossale storia di Sabrina Prioli, una tra le migliaia di italiani che tengono alto il nome del nostro paese decidendo di andare a prestare la propria professionalità e la passione in paesi che vivono tragedie, mettendosi in gioco per sete di giustizia.
Nel 2016, Prioli viene chiamata per una consulenza dalla ong americana Usaid a Juba, la capitale del Sud Sudan, il paese africano tristemente noto per le violenze che lo contraddistinguono dal 2013. La nostra cooperante, purtroppo, si trova a Juba in uno dei momenti di maggiore recrudescenza della guerra civile. A fine giugno 2016, infatti, i combattimenti riprendono con forte intensità e la capitale è messa a ferro e fuoco.
Prioli e i suoi colleghi, in una situazione di grande pericolosità, vengono alloggiati nel compound Terrain, certificato «sicuro» dal Dipartimento di sicurezza dell’Onu, situato a solo un chilometro dalla sede della Unmiss, i caschi blu dell’Onu.
Le violenze e l’abbandono
L’8 luglio infuriano gli scontri tra le forze governative Spla e le forze di opposizione Spla/io. Gli operatori si barricano nell’unico edificio in cemento armato, lanciano segnali disperati all’Unmiss, all’Onu e alle ong, oltre che alle rispettive ambasciate, inclusa la nostra ad Addis Abeba, e restano in attesa di venire messi in salvo. Ma i giorni passano e nessuno si fa vivo.
«L’11 luglio – spiega Prioli – sono entrati i soldati nel nostro edificio e hanno cominciato a sparare ferendo varie persone e uccidendo un giornalista sudsudanese». A quel punto, si sono dedicati sistematicamente a violentare le donne presenti. Con un furore progressivo prende il via un orrore sistematico difficile da spiegare a parole.
Sabrina viene ripetutamente stuprata da almeno cinque soldati e torturata. Durante le violenze, perde ripetutamente coscienza e, assieme ai colleghi sopravvissuti, resta in balia dei suoi aguzzini per molte ore, senza che nessuno intervenga. Nel pomeriggio, i sudsudanesi della Sicurezza nazionale liberano gli ostaggi, ma si dimenticano di Prioli e altre due operatrici umanitarie.
«Siamo state inspiegabilmente abbandonate lì per altre 16 ore, accanto al cadavere del giornalista». Sedici ore infinite: i soldati rientrano e Prioli subisce altri due stupri e torture. Il 13 luglio trova un cellulare funzionante e chiama la sicurezza di Usaid che finalmente invia effettivi dell’esercito (probabilmente gli stessi che avevano attaccato il compound) a evacuare le cooperanti.
L’indifferenza dello stato italiano
Finisce così una vicenda straziante di violenza da parte di milizie locali, ma ne inizia un’altra da parte delle istituzioni. In particolare, dello stato italiano.
In una prima fase, Prioli viene convocata a Juba a testimoniare in vari processi che la costringono ripetutamente a ricordare momenti atroci e, solo nel 2022, grazie alla pervicacia sua e dei legali, ne ricava un risarcimento minimo da parte del governo sudsudanese, che ripara solo parzialmente l’umiliante prima offerta di 5.000 dollari a mo’ di rimborso spese.
Ma l’Italia? Praticamente assente nel fornire assistenza a una sua concittadina per tutta la fase processuale sudsudanese, viene chiamata direttamente in causa nel 2021 quando i legali di Prioli inoltrano una richiesta di elargizione per vittime di terrorismo al ministero dell’Interno. E da qui inizia un secondo calvario per Prioli, fatto di umiliazioni e rimandi oltraggiosi.
Nel dicembre 2022, dopo più di un anno, il Viminale rigetta la richiesta. Parte allora un rimpallo tra i legali e il ministero che porta al rigetto definitivo a fine 2022. Il ricorso, presentato nel febbraio successivo, costringe il giudice del tribunale dell’Aquila a fissare l’udienza per il settembre 2023, ma sarà lo stesso a rinviarla al settembre di un anno dopo senza fornire particolari motivazioni.
L’ultima beffa
E a rendere tutto farsesco, se non fosse che stiamo parlando di una causa per stupro, sevizie e tortura, pensa il nuovo giudice incaricato, il quale rinvia l’udienza a luglio 2025. Anche l’istanza di anticipazione degli avvocati viene rigettata: non può essere accolta «dato l’elevato carico di lavoro che non permetterebbe una serena trattazione». Se quindi l’udienza si celebrerà a luglio, saranno passati più di quattro anni.
«È assurdo che il mio caso arrivi sempre dopo altri – si sfoga la donna –. Soffro ancora di disturbo da stress post-traumatico a cui va ad aggiungersi questa situazione di indifferenza totale che mi fa stare malissimo. Ricado spesso in uno stato depressivo perché continuamente rivittimizzata dalle istituzioni. A noi donne vittime di violenza viene chiesto di avere il coraggio e denunciare, ma spesso dobbiamo affrontare l'indifferenza delle istituzioni, la lentezza della burocrazia e lo stigma che ci circonda».
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