Passate da poco le 23 del 23 luglio 2023, le note di Pedro Pedro Pedro Pedro Pe di Raffaella Carrà si spandono allegre dalla sede del Psoe di Madrid, a Calle Ferraz. Dove i militanti socialisti si accalcano attorno al palco che tra poco accoglierà il vero vincitore della notte, Pedro Sánchez. Sopravvissuto ancora una volta all’ennesimo appuntamento cruciale della sua vita politica: le elezioni generali che i sondaggi avevano pronosticato sarebbero state vinte dalle destre. E invece il Pp è la lista più votata, ma l’obiettivo delle sinistre di impedire l’entrata dell’estrema destra al governo del paese è raggiunto: le destre sommate non hanno i numeri sufficienti, Sánchez non ha perso e può aspirare a rinnovare un esecutivo di coalizione progressista, seppure con una maggioranza più larga e complessa di quella precedente. Così, in quattro mesi, il leader socialista si adopera per tessere la tela di accordi con sette formazioni dell’arco parlamentare, progressiste, indipendentiste e nazionaliste, accedendo a porre il tema territoriale a fianco di quello dell’avanzamento dei diritti sociali e di cittadinanza. E, a 51 anni, torna alla Moncloa, alla guida di un nuovo governo in coalizione con Sumar.

Sánchez ha sorpreso di nuovo tutti un mattino di maggio. All’indomani delle elezioni regionali, in cui i socialisti avevano perso gran parte del loro patrimonio elettorale. Aveva convocato elezioni anticipate, scommettendo che la mobilitazione dei democratici e dei progressisti avrebbe contenuto l’avanzata delle destre più reazionarie che la Spagna democratica abbia mai avuto. Un gesto capace di convertire il sentimento di depressione per la sconfitta nella speranza di una rivincita. In quel frangente, Sánchez capisce e si appropria della potenza del racconto per rendere credibile nella maggioranza del paese l’obiettivo della sconfitta delle destre.

La sua è una storia di digressioni e ritorni strategici. Costretto a dimettersi nel 2016 per essersi opposto a un governo di grande coalizione col popolare Mariano Rajoy, Sánchez torna a ricoprire l’incarico nel 2017, dopo avere vinto le primarie degli iscritti. È quello il primo strappo nella sua carriera politica. Nel 2018, mette insieme una maggioranza parlamentare per sfiduciare il governo Rajoy, l’operazione è vincente e va alla Moncloa. Vi ritorna nel 2019, non più con un monocolore socialista, ma in coalizione con Podemos, ed è la prima volta in democrazia. Governerà con Pablo Iglesias fino al maggio 2021, una possibilità esclusa appena qualche tempo prima, ma resa necessaria dalla matematica parlamentare; poi con Yolanda Díaz fino alla fine della legislatura. E sarà la legislatura più avanzata in materia di diritti sociali, del lavoro e delle libertà. Il suo governo approverà gli indulti per gli indipendentisti in carcere e la riforma del codice penale. Per tornare al governo in questo 2023, Sánchez ha dovuto accettare l’amnistia agli indipendentisti anche perché, come ha spiegato nel discorso d’investitura, «le circostanze fanno di necessità virtù». Questa straordinaria capacità di percepire ciò che si muove nella società, una certa duttilità alle circostanze, una propensione al rischio pianificato e una forte determinazione mista a resilienza, fanno di Sánchez un politico imprevedibile, a volte inaffidabile, eppure vincente nelle sfide che si propone.

In questi anni Sánchez è riuscito a fare della Spagna una protagonista della politica europea. Con la sola compagnia del portoghese António Costa nel panorama socialdemocratico, ha favorito il nuovo ciclo europeo del Next Generation e del tetto al prezzo del gas e la Spagna guida ora la ripresa economica del continente. Oggi, alla presidenza del semestre europeo, propone la riforma del patto di stabilità e quella dell’immigrazione. In queste settimane, la Spagna è tra i paesi europei più impegnati per il cessate il fuoco nella striscia di Gaza.

 

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