- Nella storia contemporanea, possiamo dividere il nazionalismo in due grandi epoche: l’Ottocento, in cui il nazionalismo è il figlio d’oro della politica europea, e il Novecento, in cui lo stesso diviene protagonista di tragedie con le due guerre mondiali.
- Il nazionalismo resta quindi un termine chiaroscuro che a seconda del contesto e della parte che se ne serve può assumere significati positivi o negativi.
- Di conseguenza, è bene diffidare di coloro secondo i quali nelle tensioni internazionali e nelle guerre tutto si spieghi semplicemente con l’eccesso di nazionalismo dando a esso una accezione puramente negativa. Al tempo stesso, però, non si può negare il rilevante ruolo dello stesso in gran parte dei conflitti, da solo o più spesso combinato con altre pericolose visioni. Il caso del conflitto russo-ucraino non fa eccezione.
Il nazionalismo è uno dei concetti più ambivalenti della politica. Nella storia contemporanea, possiamo dividere il nazionalismo in due grandi epoche: l’Ottocento, in cui il nazionalismo è il figlio d’oro della politica europea che permette ad alcuni grandi paesi, come Italia e Germania, di unificarsi e a molte altre nazioni in potenza di emanciparsi dal dominio imperiale, e il Novecento, in cui lo stesso diviene protagonista di tragedie con le due guerre mondiali e la bestia nera della politica mondiale soprattutto sul finire del secolo.
Ma gli eventi non sostituiscono mai in modo definitivo un’accezione con un’altra e infatti questi due significati si sovrappongono l’uno all’altro. In altre parole, il nazionalismo resta un termine chiaroscuro che a seconda del contesto e della parte che se ne serve può assumere significati positivi o negativi.
Come si diceva poc’anzi, nel Diciannovesimo secolo il nazionalismo ha prevalentemente un ruolo positivo, è sinonimo di emancipazione, si lega per molti aspetti alla rivoluzione francese e al liberalismo, è uno degli elementi che segna il superamento dell’antico regime in cui i legami, i ceti e il sangue, contavano più dei cittadini di un certo stato nazionale. E proprio stato e nazione costruiscono un rapporto forte e ibrido.
In alcuni casi, come in Francia e Inghilterra, lo stato crea la nazione con la sua azione omologatrice e centralista – tramite gli eserciti, il diritto, la burocrazia, la scuola, la lingua comune, i censimenti e la statistica – mentre in altri è il desiderio di unità nazionale o d’indipendenza, come in Italia, Ungheria, Germania, ad aprire il varco politico per la costruzione di un nuovo stato, nazionale e costituzionale.
Concetto eversivo
Non è un caso, dunque, che un autore conservatore come Elie Kedourie in Nazionalismo (Liberilibri, 2021) veda il nazionalismo come un concetto eversivo, di marca rivoluzionaria appunto, per due motivi: in primo luogo, esso giustifica la resistenza a una dominazione straniera, indipendentemente dalla qualità della medesima.
Ma l’autogoverno è potenzialmente nemico del buon governo, sostiene lo studioso iraniano. Lo è per ragioni che potremmo definire “democratiche”: il criterio di legittimità ha a che fare con chi esprime una certa élite di governo e non invece con che cosa quell’élite fa.
In secondo luogo, il nazionalismo è eversivo e rischioso perché può accendere entro uno stesso territorio un meccanismo di rivalità etnica potenzialmente distruttivo delle minoranze. John Lukacs, uno storico che amava considerarsi “reazionario”, mostra la stessa prudenza di Kedourie affermando nel suo pamphlet Democrazie e populismo (Longanesi, 2005) che «dopo il 1870 il nazionalismo diventò quasi senza eccezioni antiliberale, specialmente dove il liberalismo non era più principalmente nazionalista».
Di conseguenza e con ritmo crescente verso il Ventesimo secolo il nazionalismo diviene aggressivo verso gli altri paesi, s’imparenta con il militarismo, il razzismo e il socialismo.
Ma anche in questo caso la fotografia non è monocromatica, e Lukacs conclude affermando: «Naturalmente quest’unione di nazionalismo e socialismo ha assunto forme diverse da popolo a popolo: ha potuto coesistere con le istituzioni democratiche e con le tradizioni di libertà del liberalismo, come in molti paesi scandinavi; il nazionalsocialismo tedesco è stato soltanto un caso estremo sfociato nella catastrofe».
Tuttavia, come nota Yoram Hazony nel suo controverso saggio Le virtù del nazionalismo, dopo la Seconda guerra mondiale nessuno in occidente si è più voluto identificare totalmente con il nazionalismo proprio per l’associazione di questo concetto con il nazismo e il fascismo. Anche se leader come Winston Churchill, Dwight Eisenhower, Charles de Gaulle, Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno certamente incorporato il nazionalismo nella propria offerta politica senza vergognarsene e senza sprofondare nel bellicismo.
Luci e ombre
Il puzzle dottrinario è dunque ricco di tessere diverse e all’interno di questo quadro negli ultimi anni si è tornati a parlare di nazionalismo, esorcizzandone il ritorno e prediligendo il più rassicurante termine “sovranismo”. Brexit, Trump, la crescita della destra euroscettica, ma anche i partiti centristi come la Cdu, Les republicains ed En marche hanno subìto spesso il richiamo del nazionalismo di fronte alle intemperie della globalizzazione e dei flussi migratori. Un’oscillazione che ha rimesso al centro del dibattito i confini, gli eserciti, il ruolo dello stato nazionale.
Ma il nazionalismo, negli ultimi decenni, ha avuto anche accezioni positive. Si pensi, ad esempio, alla ricerca di auto-determinazione di quei paesi colonizzati dagli imperi occidentali oppure, da ultimo, alla reazione ucraina di unione e sacrificio per proteggere il proprio paese dall’attacco russo. Chi non si sentirebbe parte di qualcosa di comune e trascendente i singoli di fronte all’invasione nemica? Chi non vorrebbe proteggere le proprie tradizioni, la propria lingua, la propria bandiera, il proprio patrimonio e il proprio stato in modo più assertivo e identitario di fronte a un nemico aggressivo?
Ecco ancora una volta che il nazionalismo mostra vizi e virtù. Lo illustra bene, con particolare aderenza al caso dell’Ucraina, un grande storico americano, Robert H. Wiebe nel suo Who we are (Princeton University Press, 2001): «Il nazionalismo non informa il militarismo; è il militarismo che informa il nazionalismo. L’armamento dello stato moderno ha generato tanto gli scontri culturali esterni quanto i conflitti interni: con le pistole, le persone sparano. Molto di ciò che passa come una intolleranza connaturata al nazionalismo si può meglio comprendere se si concepisce come una difesa della società di fronte alla capacità di uccidere dello stato. Quasi tutti i grandi massacri dei tempi moderni sono stati ispirati dallo stato, diretti dallo stato o almeno sostenuti dallo stato. Gli stati, non le nazioni, generano i miseri milioni di apolidi».
In altre parole, è bene non dimenticarlo, sono i governi e gli stati a innescare le guerre, non i popoli e le nazioni. Il nazionalismo politico non implica automaticamente l’aggressione e la violenza.
Militarismo russo
E qui veniamo alla questione finale, quella russa. Molti continuano ad avanzare l’ipotesi di un nazionalismo russo come motore dell’invasione ucraina, ma a ben vedere l’operazione appare più come un classico piano governativo animato da motivi imperialisti.
Putin sembra voler reclamare territori che furono parte dell’Unione sovietica e che vennero presi sulla base di una spinta pan-slavistica e imperiale della Russia. Per giustificare la guerra, il Cremlino utilizza un vecchio leitmotiv imperialista, quello della minoranza russa, che vive come cittadinanza di seconda classe oltre confine, presente nell’Ucraina orientale.
Il “popolo fuori confine” che deve essere ricondotto all’intero del multietnico impero diventa espediente per l’espansione, per un mutamento di confini della madre patria, che è un classico sintomo imperialista.
C’è la ricerca del maggior prestigio della nazione russa agli occhi del mondo, ma sotto la superficie non pare essere tanto l’interesse nazionale o etnico ad animare l’élite russa quanto la necessità di controllare territori e risorse in origine legati o parte della vecchia Russia. Un impero mira all’espansione militare ed economica, inglobando in sé territori e popoli diversi, e a creare zone “cuscinetto” favorevoli per sé o a esso ancillari.
In definitiva, il militarismo russo di origine imperiale crea i presupposti per un nazionalismo difensivo ucraino, ma è difficile vedere in questa guerra uno scontro tra due nazionalismi come sostengono alcuni, o un puro esercizio di nazionalismo russo come argomentano altri. La prima guerra mondiale fu l’esplosione di tensioni derivanti da sistemi imperiali in crisi che i successivi stati-nazione non riuscirono a gestire se non per pochi anni.
Il secondo conflitto mondiale, che vide sicuramente tra le ideologie protagoniste il nazionalismo, fu però il feroce tentativo di ricostruzione degli imperi, il terzo Reich e l’Urss, o di goffa emulazione di un nuovo impero, il fascismo italiano. Si trattava di nazionalismo, dunque, ma accoppiato ad altre idee come l’imperialismo, il militarismo, il razzismo e il socialismo.
Di conseguenza, è bene diffidare di coloro secondo i quali nelle tensioni internazionali e nelle guerre tutto si spieghi semplicemente con l’eccesso di nazionalismo dando a esso una accezione puramente negativa. Al tempo stesso, però, non si può negare il rilevante ruolo dello stesso in gran parte dei conflitti, da solo o più spesso combinato con altre pericolose visioni. Il caso del conflitto russo-ucraino non fa eccezione.
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