In Giappone solo un terzo dei casi riconosciuti come stupro sfocia in procedimenti giudiziari. Quando ha pubblicamente denunciato un potente collega per stupro, Shiori Ito è diventata uno dei volti del movimento femminista giapponese e ha contribuito a riaprire il dibattito pubblico sull’obsoleta legislazione sulla violenza sessuale in vigore nel paese
«Lui è un giornalista impegnato in politica da tempo. Ha amici in polizia ed è molto vicino al premier Abe. Per questo ho paura».
C’è un dolore indicibile nella storia di Shiori Ito, che nel 2015 è stata drogata e violentata in un hotel di Tokyo da un collega con cui si era incontrata per discutere di opportunità di lavoro. Ha denunciato quasi subito Noriyuki Yamaguchi, reporter televisivo navigato, ex caporedattore del Washington Broadcasting System di Tokyo, amico e biografo dell’allora primo ministro giapponese Shinzo Abe.
Anche se rapporti di potere così iniqui possono essere un disincentivo a sporgere denuncia, lei voleva che il suo caso ribaltasse il sistema giudiziario patriarcale che in Giappone non tutelava le vittime di violenza sessuale, con leggi inadeguate e antiquate. Per questo, nel 2017, dopo due anni dalle violenze, ha deciso di affrontare l’omertà della polizia e dei media e lo scetticismo dilagante sui social per uscire allo scoperto e parlare pubblicamente.
Ora è considerata il volto del movimento Me Too in Giappone e l’ispiratrice di una storica riforma sulle violenze sessuali approvata nel 2023.
Una notte di primavera a Tokyo
Ito e Yamaguchi si erano incontrati in un bar, e questo è ciò che lei ricorda di quella serata. Poche ore dopo: il vuoto. Un frame delle telecamere di sorveglianza dell’albergo mostra un uomo che fa scendere di peso la ragazza dal taxi e la porta barcollante verso l’ingresso. Il tassista racconterà che lei aveva chiesto più volte di essere portata alla stazione per tornare a casa, e che quando era arrivato il momento di scendere dall’auto aveva opposto resistenza.
Il resto Ito non lo ricorda, ma racconta di essere riuscita a fuggire il mattino seguente, terrorizzata, dopo essersi risvegliata dal torpore mentre la violenza si stava consumando sul letto dello Sheraton Hotel di Tokyo. Riesce a fuggire, e quando torna a casa realizza che la sua vita è cambiata per sempre. Deve trovare le forze per ritornare in sé e ricostruire l’accaduto per capire come muoversi.
Era drogata? Ubriaca? Come è possibile che quella serata le sembri una scatola nera? Si rivolge alle autorità, ma quando capisce che il sistema non la tutela, perché Yamaguchi ha troppo potere, decide di avviare un’inchiesta giornalistica sul suo stesso caso: raccoglie prove, registra ogni conversazione, riprende i momenti in cui parla con gli investigatori, con i colleghi giornalisti, e con la famiglia e gli amici.
Black Box
Nonostante Ito fosse molto giovane (all’epoca dei fatti aveva 26 anni), la sua voce era già potente e la sua determinazione ben salda: per tutte le donne che hanno subito abusi da parte di uomini di potere apparentemente intoccabili, Ito non poteva rimanere in silenzio.
«Ho la possibilità di parlare della verità e di dire cosa mi è successo due anni fa», spiega nel documentario che ha girato lei stessa, The Black Box Diaries, incluso nel progetto Mondovisioni di Internazionale e in distribuzione nelle sale di tutta Italia fino alla prossima estate: «Può essere un grande cambiamento nella mia vita e in quella di qualcun’altra. O di tante altre».
Per questo ha raccolto la sua testimonianza anche in un libro, Black box, edito in italiano da Inari Books, usando gli strumenti del suo mestiere per affrontare il dolore e “guardare tutto in terza persona”, come spiega nel docufilm.
La battaglia legale
Non senza difficoltà, Ito ha intrapreso le vie legali, anche se il sistema giudiziario è “una scatola nera” (di qui il riferimento alla black box) quando si tratta di violenze sessuali, le ha detto un procuratore, e una scatola nera è anche la sua memoria quando prova a ricostruire i fatti della notte che le ha cambiato la vita per sempre. In Giappone solo un terzo dei casi riconosciuti come stupro sfocia in procedimenti giudiziari.
Come riporta Human Rights Watch, secondo i dati del governo, oltre il 95 per cento degli episodi non viene denunciato alla polizia. Parlare «di stupro è percepito come “imbarazzante” in Giappone e l’opinione pubblica spesso tende a incolpare la vittima piuttosto che l’aggressore», spiega l’organizzazione per i diritti umani.
«Il governo giapponese non dovrebbe aspettare che le vittime si facciano avanti per chiedere un cambiamento, ma dovrebbe muoversi ora per riformare quello che, nonostante i recenti miglioramenti, è ancora un sistema irrimediabilmente antiquato – e sessista – per affrontare la violenza sessuale».
L’opinione pubblica giapponese, stimolata dai casi di cronaca nazionali e internazionali, ha sollecitato un intenso dibattito sul tema, e lo scandalo dell’amico di Abe ha coinvolto inevitabilmente anche la politica.
Nel 2019 sono emersi quattro casi di violenza sessuale in poco più di un mese, ognuno dei quali ha portato all’assoluzione del presunto aggressore. Secondo il mondo dell’attivismo femminista, questo, insieme alla storia di Shiori Ito, ha contribuito a preparare la società giapponese a una riforma legale.
Nel frattempo il processo contro Yamaguchi è passato da penale a civile, nel 2019 ha ottenuto una piccola vittoria quando un tribunale ha ordinato a Yamaguchi di pagarle 3,3 milioni di yen (quasi 20mila euro) di danni in una causa civile e ha respinto la sua contro-causa di 130 milioni di yen.
Poi, l’8 luglio 2022 la Corte suprema ha sancito la sua vittoria nel processo civile.
Nessuna consolazione, ma un piccolo passo verso la giustizia, che nel docufilm festeggia sulle note di I will survive di Gloria Gaynor, in un tributo alla forza di chi sopravvive agli abusi. Ora, però, deve rimboccarsi nuovamente le maniche, perché Yamaguchi ha fatto ricorso in appello.
Il lascito del Me Too e quello di Shiori Ito
Alcuni hanno attribuito a Ito il merito di aver stimolato il dibattito pubblico sulle molestie e gli abusi nella società giapponese, che ha portato, l’anno scorso, alla riforma sulla legge sulle violenze sessuali. Lei, in un servizio di Bbc, racconta che il Me Too internazionale l’ha incoraggiata: «Ho pensato: “Non è successo solo a me!” e credo che anche altre lo abbiano pensato».
Così è andata avanti dopo le prime accuse. «La legge sullo stupro in Giappone è vecchia più di 100 anni. L’età per il consenso è di 13 anni. Il non consenso non era abbastanza per provare di essere state stuprate», scriveva nei suoi appunti. Otto anni dopo le violenze subite, a giugno 2023, la nuova legge approvata dal parlamento giapponese è una vittoria personale e collettiva. Se prima non si riconosceva giuridicamente il ruolo del consenso e la fattispecie di stupro veniva accolta solo se includeva la forza fisica, a giugno dell’anno scorso il parlamento giapponese ha cambiato le cose.
Si è alzata l’età del consenso da 13 a 16 anni e sono stati introdotti i rapporti non consensuali tra le fattispecie di stupro, specificando le varie condizioni in cui una persona può avere paura di dire “no” anche se non direttamente minacciata di violenza. L’eventualità in cui la persona aggredita abbia consumato alcolici o droghe rientra in questi casi.
La sfida del docufilm
Sulla ricerca del distributore giapponese per il suo documentario, Ito ha detto al Guardian: «Abbiamo delle difficoltà. Non è una grande sorpresa, ma è un peccato. Stiamo facendo del nostro meglio per trovare un modo».
Nessuno ha sottolineato le ragioni della propria reticenza a proiettarlo, ma Yamaguchi è rimasto una figura di spicco nel giornalismo giapponese e quello degli abusi un caso controverso che è valso a Ito diversi attacchi misogini, di cyberbullismo e di victim-blaming. «È ancora politicamente sensibile», ha detto. La sua è la storia di un cambiamento sociale epocale, oltre che di una lotta per sopravvivere.
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