Le basi per la conquista della Silicon Valley da parte della cosiddetta Tech Right (la destra del mondo tecnologico) c’erano forse dall’inizio. L’ideologia californiana che – tramite figure come il pioniere del mondo hacker Stewart Brand o l’autore della Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio John Perry Barlow – ha plasmato fin dagli anni Settanta il settore digitale statunitense è infatti un bizzarro mix di controcultura e capitalismo, caratterizzato dall’estremo liberalismo (o meglio, libertarianesimo) e dalla totale sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei governi.

Storicamente, questa visione politica dominante tra le élite tecnologiche di San Francisco e della Bay Area è però sempre stata di stampo progressista, pacifista e inclusivo. Un liberalismo di sinistra incarnato dai vari Steve Jobs e Jack Dorsey (fondatore di Twitter) o dai motti rassicuranti di Facebook (“Connettiamo il mondo”) e di Google (“Non essere malvagio”, poi rimosso).

Nei primi anni Duemila, i pochissimi che – spesso abbeverandosi alle idee di Nick Land, il filosofo dell’accelerazionismo – erano approdati a un cupo e reazionario anarcocapitalismo, come il potentissimo investitore Peter Thiel, venivano trattati da outsider: eccezioni di destra in un ambiente dominato dalla corrente liberal. Ancora attorno alla metà degli anni Dieci, Palmer Luckey (fondatore di Oculus, società di visori per la realtà virtuale poi acquistata da Meta) veniva licenziato dall’allora Facebook a causa del suo supporto a Donald Trump e per aver donato 10mila dollari a un gruppo “anti Hillary Clinton”.

Nello stesso periodo, Google doveva rinunciare ai miliardari contratti siglati con l’esercito statunitense a causa delle proteste dei dipendenti, mentre una delle voci più ascoltate dell’estrema destra, il conduttore Alex Jones, subiva la messa al bando da YouTube, Twitter, Facebook e non solo. Il concetto era chiaro: nella Silicon Valley non c’è spazio per l’estrema destra, per progetti di stampo bellico, per chi fa dell’hate speech e della discrimazione la sua cifra politica. O almeno questa era l’impressione, perché nello stesso periodo la situazione stava già mutando. Prima in maniera sotterranea, e poi, negli ultimi anni, sempre più esplicita e manifesta. Difficile individuare il momento preciso in cui la corrente ha iniziato a cambiare. È però possibile isolare alcuni degli elementi che da una decina d’anni circa, e intrecciandosi tra di loro, hanno permesso l’ascesa di una destra talvolta estrema in un ambiente che sembrava essere intrinsecamente progressista.

Prima di tutto, c’è stato il crescente impatto economico e politico dei cosiddetti “Bitcoin billionaires”: piccoli investitori resi ricchissimi dai loro precoci investimenti in criptovalute e spesso caratterizzati da una totale ostilità verso il governo, le istituzioni e (soprattutto) il sistema fiscale. Un’ostilità che li ha in molti casi portati a sostenere Donald Trump, considerato l’agente del caos su cui puntare per sovvertire da destra il sistema. Contemporaneamente, la alt right (la destra estrema molto attiva online) si insinuava nei social e nella cultura popolare a furia di meme, trovando terreno fertile nella sua ostilità alla presunta “dittatura del politicamente corretto”.

Non si può però avere un impatto profondo senza passare dall’accademia e dai think tank. Ed è qui che negli ultimi anni si è infatti diffusa la filosofia del lungotermismo: una scuola di pensiero radicalmente antropocentrica, che parte da una premessa condivisibile – l’attenzione alle ricadute future di ciò che mettiamo in moto oggi – per arrivare all’inquietante conclusione che ogni sforzo dell’essere umano debba essere teso alla conquista del suo “destino manifesto”, vale a dire la colonizzazione del cosmo intero.

La diffusione del lungotermismo tra le élite tecnologiche e in tantissime istituzioni (tra cui la Banca mondiale, l’Oms e il World Economic Forum) non sarebbe però stata possibile senza il grande successo di Nick Bostrom, il filosofo di Oxford punto di riferimento dei lungotermisti e noto al grande pubblico per essere il teorico del “rischio esistenziale” posto dall’intelligenza artificiale (il suo saggio Superintelligenza è stato pubblicato in Italia da Bompiani). Meno note sono però le posizioni politiche di Bostrom, rintracciabili in alcuni vecchi post da lui pubblicati su un forum online, dove sosteneva, tra le altre cose, che «i neri sono più stupidi dei bianchi» (posizione per la quale si è recentemente e forse opportunisticamente scusato).

Musk a destra

Le posizioni razziste di Bostrom non sono però un’eccezione. Al contrario, sono la norma in quella che è l’ultima tendenza nell’ambiente più nerd e tecnologico della Silicon Valley, ovvero la misurazione del quoziente intellettivo e la discriminazione nei confronti di chi ottiene un basso punteggio, considerato geneticamente inferiore. Una posizione che non solo non prende in considerazione la parzialità di una metrica come il quoziente intellettivo (che tende a favorire i già privilegiati), ma che – come racconta il New Statesman in una lunga inchiesta sul fenomeno – ha spesso e volentieri delle derive eugenetiche.

A favorire la diffusione e lo sdoganamento di posizioni e correnti di pensiero che fino a poco fa sarebbero state (giustamente) tabù ha massicciamente contribuito colui che è diventato il simbolo stesso della transizione verso destra della Silicon Valley: Elon Musk, le cui posizioni sempre più estreme e complottiste vengono ormai esposte senza alcun pudore e con il plauso di milioni di follower adoranti (tra cui numerosi politici, anche nostrani). Musk, che nel suo passato politico ha supportato la corsa di Barack Obama e di Hillary Clinton, oggi sostiene su X la teoria del complotto secondo cui Joe Biden starebbe favorendo l’immigrazione irregolare per «importare elettori» dall’estero, «creando una minaccia per la sicurezza nazionale» e ponendo le basi per «qualcosa di molto più grave dell’11 settembre».

Inevitabilmente, sotto la sua guida – e all’insegna di una semplicistica interpretazione della libertà d’espressione – la piattaforma un tempo nota come Twitter è diventata il paradiso della destra reazionaria ed estrema, tanto da fargli conquistare le lodi di noti suprematisti bianchi statunitensi come Richard Spencer e Nick Fuentes, e contribuendo alla normalizzazione di posizioni che un tempo avrebbero invece portato alla messa al bando dai principali social network.

Un’altra importantissima figura della Silicon Valley che è recentemente uscita allo scoperto è Marc Andreessen. Fondatore del primo browser di massa (Netscape) e da decenni uno dei più importanti investitori al mondo, Andreessen ha da poco pubblicato una sorta di manifesto ideologico intitolato The Techno-Optimist Manifesto, in cui sostiene per esempio che «non esistono problemi materiali», compresi quelli causati dalla tecnologia, «che non possano essere risolti attraverso più tecnologia».

E che questo progresso non debba semplicemente continuare, ma debba costantemente accelerare, «per assicurarci che la spirale ascendente del tecno-capitalismo proceda per sempre». «Crediamo di dover inserire l’energia e la natura in un ciclo positivo di feedback, guidandole verso l’infinito», prosegue il fondatore di Netscape. «Crediamo nella natura, ma crediamo anche nel superamento della natura. Non siamo primitivi, rannicchiati per paura dei fulmini. Noi siamo i predatori all’apice della catena: i fulmini lavorano per noi». E poi, citando non a caso Marinetti e il Futurismo, conclude: «La tecnologia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo».

Armarsi

A beneficiare del nuovo clima che si respira nella Silicon Valley è anche il già citato e redivivo Palmer Luckey, che nel 2017 – grazie anche al sostegno economico di Elon Musk e Peter Thiel – ha fondato l’azienda di tecnologia bellica Anduril e che oggi, tra un contratto con l’esercito statunitense e l’altro, sostiene apertamente la necessità che gli Stati Uniti si armino fino ai denti, «per avere la capacità di vincere senza difficoltà ogni guerra a cui saremo costretti a partecipare», come ha spiegato al Financial Times.

Per quanto le élite della Silicon Valley siano ancora oggi a maggioranza progressista, il fatto che sempre più tecnomiliardari possano sostenere posizioni militariste, complottiste e reazionarie senza temere contraccolpi è un chiaro segnale. Come lo è la crescita percentuale conquistata in quest’area della California da Donald Trump, passato dal 20 per cento del 2016 al 23 per cento del 2020.

Una percentuale ancora minoritaria, ma che potrebbe ulteriormente e significativamente aumentare alle presidenziali del prossimo novembre. Le condizioni perché ciò avvenga, d’altra parte, ci sono tutte.

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