Libano, Iraq, Egitto, Israele e Palestina. Tante le sfide per i sistemi di potere mediterranei e i loro “sponsor”. In attesa del prossimo boom demografico, previsto per il 2032, che scuoterà le loro fondamenta politiche
Garantire i diritti fondamentali, tra cui l’accesso al benessere socio-economico. Proporre un confronto costruttivo con l’alterità in un clima di crescente polarizzazione identitaria. Passare da una logica di repressione delle contestazioni a una visione più matura di governo, fiduciosa della sua capacità di includere le diversità e di saper negoziare una formula condivisa di gestione delle risorse e distribuzione dei servizi.
Sono queste le sfide che attendono i sistemi di potere mediterranei e i loro sponsor stranieri adesso e nei prossimi anni, quando un nuovo boom demografico, previsto attorno al 2032, scuoterà nuovamente la profondità delle attuali strutture politiche e di sicurezza, da decenni fondate sulla logica dell’arroccamento delle élite dominanti e dei loro riferimenti stranieri, che cercano di contenere le sempre più pressanti spinte interne per una revisione del patto sociale tra governanti e governati.
La Siria
È la Siria, con la forza esplosiva degli sviluppi più recenti e con l’inerzia pesante delle sue dinamiche di lungo corso, il laboratorio sociale e politico mediterraneo dove questi cambiamenti stanno prendendo corpo, aggregandosi e disgregandosi in un movimento vitale in apparenza caotico e al tempo stesso carico di speranze.
La dissoluzione del potere incarnato per più di mezzo secolo dalla famiglia Assad ha riportato improvvisamente d’attualità gli eventi registratisi nell’ormai lontano marzo 2011. È come se all’alba dell’8 dicembre scorso, quando varie anime dell’insurrezione anti-governativa sono penetrate incredibilmente nel cuore della capitale Damasco, avessimo tutti ritrovato i fili perduti, ma ancora caldi e pulsanti, di una cronologia a lungo dimenticata nell’appendice di un libro di storia.
Quella cronologia non può considerare il 2011 – tantomeno il 2024 – né come l’inizio né la fine di una vicenda ancora tutta da raccontare. Ma parte da lontano. E deve necessariamente tornare indietro per comprendere le ragioni dell’esplosione demografica cominciata in tutto il Mediterraneo meridionale e orientale a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso. Perché è proprio nel penultimo decennio del ‘900 che nascono al mondo i milioni di Muhammad Bouazizi, simbolo-scintilla delle massicce proteste popolari innescatesi dalla fine del 2010 in Nordafrica e che hanno poi scosso tutto il Medio Oriente e il Golfo, passando appunto anche per la Siria degli Assad.
Esplosione demografica
Dati delle Nazioni unite, messi da anni a disposizione delle agenzie umanitarie e di sviluppo, contribuiscono infatti a restituire un’immagine di lungo periodo dei processi politici che si cristallizzano invece negli istanti di un fatto di cronaca. E se il boom di nascite degli anni ‘80 e il successivo montare delle aspettative economiche, politiche e culturali, culminato con i primi anni 2000, può in parte spiegare l’improvvisa liberazione delle a lungo sopite energie sociali tra l’autunno 2010 e la primavera del 2011, le stime aggiornate dall’Onu sulla crescita della popolazione nelle sponde orientali e meridionali del Mediterraneo spingono a prevedere una nuova possibile ondata di contestazione politica a partire dal 2030. Che potrebbe raggiungere il suo apice nel 2032. Almeno che i sistemi di potere - con le loro rispettive ‘Visioni 2030’ - non corrano ai ripari proponendo una nuova architettura di governo.
La Siria post-Assad è ora tutta impegnata a chiedersi e a dibattere su quale sarà la costituzione del nuovo stato “liberato”, con tutto quello che ne consegue in termini di diritti e doveri, inclusione ed esclusione, alleanze e rivalità, scelte di campo locali e internazionali, sullo sfondo di una discussione, mai interrotta, su quale sia “l’identità nazionale”. Già nella sua enunciazione al singolare (l’identità) e non al plurale (le identità) risiede uno dei vizi del tempo presente: il tempo di chi non ha compreso l’urgenza di aggiornare il patto sociale ed è ancora così proiettato verso la ricerca di una presunta unità identitaria, per sua natura risultato di una sottrazione e non di una sintesi, di un compromesso.
Il Mediterraneo che verrà
Il Mediterraneo che verrà rischia dunque di apparire un insieme di stati-nazione apparentemente funzionanti e “stabili” accanto ad altri “falliti” e “instabili”, tutti regolarmente puntellati, con il massiccio e continuo innesto di risorse finanziarie esterne, da chi si erge a guardiano dell’ordine internazionale.
Il Libano, dove la struttura militare e politica della resistenza armata a Israele appare fortemente indebolita, potrà avere il suo tanto atteso capo di stato. Ma l’equazione del potere non cambierà: la cupola dei capi-bastone continuerà a dominare la gestione delle risorse e dei servizi in nome dell’”interesse nazionale”, foglia di fico dell’interesse di tanti diversi attori locali e stranieri. Soprattutto le disuguaglianze politiche, sociali ed economiche si faranno ancora più marcate, spingendo i giovani e i meno giovani a una scelta obbligata: migrare, tramite canali clandestini o legali, o cercare di entrare a tutti i costi nella macchina clientelare.
La vicina Siria potrà attrarre una minima parte dei milioni di siriani negli anni fuggiti all’estero, soprattutto nei paesi vicini. E questo non solo perché le infrastrutture civili, pubbliche e private, non potranno sorgere dalle ceneri della guerra e della crisi economica con un battito di ciglia. Ma soprattutto perché manca l’infrastruttura politica e sociale necessaria per consentire un ritorno volontario e dignitoso, che offra prospettive. Il paese continuerà a essere frammentato su base territoriale e di governance, occupato da almeno tre potenze militari straniere (Turchia, Israele, Stati Uniti) e al centro di una negoziazione tra attori locali ed esterni mirata a sfruttare le risorse e non a proporre una distribuzione inclusiva e sostenibile delle stesse risorse e dei loro eventuali prodotti.
L’Iraq in questo è un modello da non seguire. Dopo più di vent’anni dall’invasione anglo-americana, la spartizione interna e regionale non ha creato nessuna pace sociale ma ha soltanto approfondito le divisioni e le trincee interne, con un’evidente corsa alla polarizzazione e alla radicalizzazione in un contesto di assenza di prospettive economiche, sociali e politiche.
Lo scenario israelo-palestinese
Lo scenario israeliano e palestinese è ancor più desolante. Dietro le vittorie militari del governo di Benjamin Netanyahu non appare una visione politica che offra genuina sostenibilità allo Stato ebraico e a ciò che rimane dei territori occupati, ora sempre più rasi al suolo e sminuzzati, con una popolazione umana trasformata in una massa sempiterna di profughi diseredati.
L’Egitto, che ancora oggi produce una delle più consistenti comunità di migranti in cerca di prospettive nelle sponde nord del Mediterraneo, è un altro modello vizioso. Le sue elite sono all’ingrasso dalle forze europee e nordamericane. Eppure dopo decenni di questo tipo di sostegno e dopo alcuni tentativi interni di cambiare il patto sociale, l’Egitto e il suo Sinai, dall’alto valore strategico su scala globale ma ai margini degli interessi nazionali e internazionali, rimangono una scatola piena di polvere da sparo in attesa della miccia giusta.
Ecco perché bisogna osservare da vicino il laboratorio Siria, sperando che gli attori esterni facciano ora un passo indietro rispetto alle loro tradizionali politiche di tutela e interferenza, e che gli attori interni colgano l’opportunità storica di trovare, tutti assieme, una nuova formula di gestione del potere.
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