La guida suprema: «Più pressione farete sulla resistenza e più diventerà forte». Intanto Mosca vuole «vedere una rapida stabilizzazione della situazione nel paese». Al Jolani: «Nessun perdono per i torturatori del regime»
La fine del regime di Assad è stata un duro colpo per Teheran. La leadership iraniana non è in grado, a differenza di altri paesi che avevano interessi in Siria, di cucire i rapporti con i ribelli jihadisti di Hayat Tahrir el Sham che fin dall’inizio hanno annunciato di voler rimuovere la presenza di Hezbollah dallo stato arabo.
Il nervosismo degli ayatollah ha preso forma nelle parole della guida suprema Ali Khamenei che ha tenuto un discorso pubblico in cui è intervenuto su ciò che è accaduto in Siria nelle ultime due settimane. «Non ci dovrebbe essere alcun dubbio che ciò che è accaduto in Siria è il prodotto di un piano congiunto americano e sionista», ha detto Khamenei accusando l’Occidente.
Davanti alla folla in acclamazione ha aggiunto: «Dovete capire che più pressione farete sul fronte della Resistenza» a Israele, «e più diventerà forte», «più crimini commettete, più diventa motivata. Più la combattete, più si espanderà. Per grazia di Dio, la resistenza si espanderà più di prima per coprire l'intera regione».
Diverso è invece il discorso per Mosca che in meno di una settimana si sta riassestando ai nuovi equilibri politici siriani. L’obiettivo principale di Vladimir Putin, al momento, è quello di tutelare le sue basi militari e non perdere la propria influenza.
La Russia «ha adempiuto alla sua missione all’epoca, fornendo assistenza alla Siria», ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Il paese ha compiuto «molti sforzi» e ora i russi vogliono solo «vedere una rapida stabilizzazione della situazione in Siria, in un modo o nell'altro, per avere successivamente una qualche prospettiva di portare la situazione in una direzione legale».
Il primo requisito per Mosca, però, è che Israele smetta di continuare a bombardare il paese e torni oltre il confine. Sulla stessa linea si è posizionata anche la Francia che ha chiesto al gabinetto di guerra israeliano di ritirare i suoi soldati.
Sulla caduta di Assad e il fallimentare aiuto di Mosca, il Washington Post ha pubblicato un’inchiesta secondo cui i miliziani siriani siano stati aiutati dall’intelligence ucraina che ha inviato circa venti operatori di droni e 150 droni al quartier generale dei jihadisti a Idlib il mese scorso prima dell’inizio dell’offensiva.
Ritorno alla normalità
In Siria è il momento della «calma» e della «stabilità». Lo ripetono da giorni il leader dei jihadisti di Hts, Abu Mohammed al Jolani, e il nuovo premier del governo di transizione, Mohammed al Bashir.
La situazione nel paese governato per 54 anni dalla dinastia Assad sta tornando pian piano alla normalità. I curdi – grazie alla mediazione degli Stati Uniti – hanno raggiunto l’accordo per un cessate il fuoco nell’area di Manbij dove da giorni erano in conflitto con alcune fazioni dei ribelli. A Damasco il Comando delle operazioni militari ha revocato il coprifuoco che era in corso da quando i jihadisti sono entrati nella capitale.
Nei prossimi giorni riaprirà anche l’aeroporto internazionale. Mentre nelle città liberate continuano a cadere le icone del regime, a Qadra è stata incendiata la tomba di Hafez Assad, simbolo della tirannia che ha terrorizzato il paese per decadi. «Non perdoneremo coloro che sono coinvolti nella tortura e nell'eliminazione dei detenuti e li perseguiremo nel nostro paese», ha detto al Jolani.
Resta da capire come sarà portato avanti il processo di transizione, se ci saranno esecuzioni di vendetta, torture o se i conti si salderanno nelle aule dei tribunali.
Al Jolani ha anche provato a rassicurare i paesi stranieri: «La gente è esausta a causa della guerra, quindi il paese non è pronto ad entrare in una nuova guerra. La paura era per la presenza del regime di Assad, attualmente è caduto e il paese si sta dirigendo verso lo sviluppo, la ricostruzione e la stabilità», ha detto.
Stati Uniti
Dopo giorni di messaggi distensivi l’amministrazione di Joe Biden ha deciso di mandare come emissario in Medio Oriente per uno dei suoi ultimi viaggi prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca il segretario di Stato Antony Blinken. Già mercoledì 11 dicembre il neo presidente ha detto di voler dare priorità alla questione ucraina.
«Ci sono un'enormità di crisi nel mondo. Da alcuni giorni, ce n'è una nuova in Siria. Dovranno vedersela da soli perché non siamo implicati laggiù, e nemmeno la Francia», ha detto in un'intervista rilasciata al settimanale francese Paris Match in occasione della sua visita a Parigi per la riapertura di Notre-Dame dei giorni scorsi. «Anche il Medio Oriente è una grande priorità - ha poi osservato - ma credo sia una situazione meno difficile da gestire di quella tra Ucraina e Russia».
Giovedì e venerdì Blinken è quindi atteso in Giordania e Turchia per una serie di colloqui che tengono conto non soltanto del nuovo scenario siriano ma anche di un eventuale accordo sugli ostaggi. Per Blinken sarà il docicesimo viaggio dal 7 ottobre 2023 e forse è quello in cui si sbloccherà la situazione dopo l’ottimismo degli ultimi giorni.
«C’è la possibilità di un nuovo accordo in questo momento che, si spera, riporterà a casa tutti gli ostaggi, compresi quelli con cittadinanza americana», ha detto il ministro degli Esteri dello stato ebraico Israel Katz. Nessuna parola, invece, da parte di Netanyahu che al momento sta pensando ai suoi guai giudiziari interni.
Anche mercoledì è stato chiamato a difendersi in tribunale dai tre procedimenti giudiziari a suo carico. In aula, ha negato tutte le accuse a suo carico, tra cui quelle di aver corrotto i rappresentanti dei media per ottenere una copertura in suo favore.
«Il desiderio di migliorare la copertura mediatica è alla base della democrazia poiché il pubblico vota, quindi si vuole influenzare l'opinione pubblica, e si crea la stessa connessione indivisibile tra le figure pubbliche e i politici con i giornalisti», ha detto in tribunale il primo ministro israeliano.
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