Il crollo del regime corrotto e criminale di Bashar al Assad è giunto inatteso, quando il dittatore iniziava ad accreditarsi nella comunità internazionale riallacciando rapporti economici con l’Arabia Saudita e si vedeva riaprire le sedi diplomatiche di paesi come l’Italia.

Il quadro strategico è ancora incerto per la Siria: si temono la deriva di un altro Califfato integralista, il caos, la frammentazione e la spartizione tra milizie e le potenze regionali, nonché lo scontro di interessi delle potenze globali.

Un leader islamista revisionista?

Centrale appare la questione dell’affidabilità della scelta ’moderata’ del leader di Hayat Tahrir al Sham (Hts), Movimento per la Liberazione della Grande Siria. Ahmad al Sharaa ha accantonato il nome di battaglia Abu Mohammed al Jolani (evocativo del Golan occupato da Israele), e sta cercando di consolidare la sua immagine di capo illuminato per avere l’appoggio della comunità internazionale nella guida della transizione della Siria. Su questo profilo sono ancora molte le divergenze degli analisti.

Tra le posizioni più critiche emerge quella dello specialista dell’Islam politico di Science Po Thomas Pierret: al Jolani «è un radicale pragmatico» che simula la moderazione per conquistare appoggi esterni, come hanno fatto i Talebani. A suo tempo la scelta quietista fu compiuta anche da Hamas e Hezbollah per ottenere ampi consensi elettorali, ma il loro progetto jihadista è riemerso con il 7 ottobre negli attacchi contro Israele.

D’altro canto è anche nell’ideologia dell’Islam radicalizzato adeguarsi al momento: si parla di un Islam appunto pragmatico o «situazionista» (Khaled Fouad Allam, Il jihadista della porta accanto) e anche di un vero e proprio canone islamico, quello della taqiyya «precauzionale», la dissimulazione a scopo difensivo (Massimo Campanini, Teologia islamica della liberazione).

In una prospettiva contrapposta altri osservatori hanno posto in luce la postura assunta dallo stesso Ahmad al Sharaa, che notoriamente da tempo si è dichiarato nemico dell’Isis e si è distaccato da al Qaeda, e ora nella nuova veste di leader della transizione promette inclusività per le donne e le altre comunità etniche e religiose, non ha assunto toni minacciosi e ha diretto le operazioni principalmente sugli obiettivi militari del regime limitando gli effetti per la popolazione civile.

Per lo studioso britannico Charlie Winter intervistato dal Guardian «il successo ottenuto da Hayat Tahrir al Sham è sorprendente, e non è minaccioso se si guarda a ciò che il gruppo ha fatto e promesso». Il riferimento è a quanto realizzato dal movimento Hts nel governo retto da cinque anni nella roccaforte di Iblid: molti oppositori sono ancora reclusi nelle  carceri, dove in passato avranno subito torture, ma più recentemente il gruppo islamista non ha fatto ricorso alla sharia estrema e ha persino ritirato la “polizia morale”. Non è poca cosa se si pensa che con l’Isis si tagliavano le teste, si crocifiggevano pubblicamente gli apostati, si compivano gli stupri per spargere il seme jihadista.

Un’altra prospettiva – suggerita dagli scritti ancora attuali di Massimo Campanini, e ripresa da analisti come Renzo Guolo, Oliver Roy e Loretta Napoleoni – va colta in una matrice storica tutta «nazionale» dell’Islam e dello stesso jihadismo: gli obiettivi di Hayat Tahrir al Sham sono ritornati ad essere esplicitamente locali e nazionali, spogliati di qualsiasi minaccia di una guerra contro l’Occidente e gli altri governanti del Medio Oriente, nemmeno contro Israele che occupa ora territori siriani.

L’idea di fondo dunque sembra proiettare la Siria non più verso uno stato teocratico o il Califfato, ma mirerebbe a una “Repubblica araba”, sufficientemente inclusiva anche delle altre culture e religioni. Da molti osservatori beninteso l’invito è ancora alla cautela e dunque va posta la giusta condizione: un giudizio potrà maturarsi solo di fronte a quanto compiuto nella transizione, specie per il riconoscimento dei diritti e della rappresentanza per le donne come per tutte le comunità etniche e religiose non sunnite, a cominciare dai curdi, ma anche per i cristiani, i drusi e gli stessi sciiti e alawiti ex sostenitori del regime.

Altri attori in gioco

È evidente che molto dipenderà dalle scelte dei vari attori che sono in gioco. C’è l’intendimento di Israele di assicurarsi un’area cuscinetto oltre il Golan, di approfittare della crisi per distruggere i depositi delle armi chimiche e degli armamenti che sono affluiti ad Hezbollah e ad Hamas, e di definire un’area di sicurezza che lo garantisca da qualsiasi minaccia siriana.

È dubbia la posizione della Russia, che – ancorché vincolata dal fronte ucraino –  è apparsa fin troppo remissiva nel ridimensionare la sua presenza sulle basi di Tartus e Hmeymim (Latakya), fino a trasferire le altre forze in Libia. L’Iran è stato netto nella condanna della rivolta sunnita e potrebbe rinviare propositi di rivalsa in momenti più favorevoli, puntando a rilanciare nel tempo l’iniziativa del suo Asse della Resistenza e il programma nucleare.

La Turchia è senza dubbio l’attore principale di questo nuovo scenario: sponsor dei vincitori di Hayat Tahrir al Sham, Receo Tayyip Erdogan mira a proseguire l’affondo sugli eterni nemici curdi del Rojava e a proporsi nel quadrante mediorientale in un ruolo più determinante. Il mondo arabo vorrebbe la stabilizzazione e certamente guarda con favore alla perdita di influenza dell’Iran, ma – specie da Arabia Saudita, Giordania ed Egitto – si teme un nuovo esodo siriano e non è gradita la sfida egemonica di Erdogan, mentre in questa fase vanno misurati i rapporti con Israele per gli esiti della crisi di Gaza e del Libano.

Gli Stati Uniti stanno colpendo a fondo le roccaforti siriane dell’Isis e dei gruppi minoritari suoi alleati, e questo può senz’altro giovare alle milizie di Ahmad al Sharaa, mentre non è ancora chiaro fino a che punto gli americani vorranno sostenere i turchi o piuttosto i curdi di cui si sono avvalsi proprio per sconfiggere i tagliagole dello Stato islamico. L’Unione europea segue gli eventi con cautela e sembra comunque incoraggiare la transizione, come peraltro ha deciso il G7 con un progetto di sostegni politici ed economici, anche per evitare una nuova minaccia migratoria.

Dare speranza ai siriani

In atto il movimento Hayat Tahrir al Sham ha il controllo di circa il 55 per cento del territorio, inclusa Damasco, e se l’obiettivo è per una Siria unita nell’interesse del suo popolo occorrerà che il modello di transizione si compia in un’architettura di tipo confederale con un potere centrale rappresentativo delle varie realtà. I modelli di riferimento sia degli organismi rappresentativi che dei processi elettorali non mancano, ma molti sono falliti o comunque ancora si presentano fortemente problematici.

I casi sono diversi ed emblematici: dal Libano alla Libia, dall’ Afghanistan al Sudan e ad altri Stati del Sahel. La comunità internazionale ha però importanti strumenti a disposizione per la Siria, soprattutto se sarà capace di essere unita nel quadro dell’ Onu: non vi è dubbio che il movimento Hayat Tahrir al-Sham punta a un riconoscimento internazionale affinché si dimentichi il suo trascorso di gruppo terrorista, ritenendosi un movimento di liberazione rappresentativo del popolo siriano che si riconosce nell’unità della Siria.

L’ obiettivo della nuova leadership di Damasco è dunque poter contare sulla eliminazione delle sanzioni e sugli indispensabili aiuti economici per favorire la transizione e sostenere il 90 per cento dei siriani che vive povertà. Il nuovo Governo di Salvezza Siriano ha richiamato espressamente la Risoluzione 2254 (2015) del Consiglio di Sicurezza sulla Siria: in essa si impongono la lotta al settarismo, la partecipazione delle donne, una nuova costituzione, elezioni libere e giuste, «amministrate sotto la supervisione delle Nazioni Unite, caratterizzate dai più alti criteri internazionali di trasparenza e affidabilità, con la partecipazione di tutti i Siriani, inclusi i membri della diaspora».

Sono state già annunciate le elezioni alla scadenza di 18 mesi come richiesto dalla Risoluzione. Altri passi avanti dovrebbero riguardare una rappresentanza permanente del Consiglio dei diritti umani dell’Onu e un accordo con la Corte penale internazionale per l’istituzione di un ufficio distaccato come supporto anche ad una “giustizia di transizione”: sarebbe un segnale importante se in luogo della vendetta fosse avviato un “processo di verità e riconciliazione”. Se la comunità internazionale, con l’Occidente delle democrazie in prima linea, saprà superare la logica delle ingerenze tra potenze e orientare bene la transizione, il popolo siriano potrà pensare a un futuro di speranza.

© Riproduzione riservata