«È il momento che abbiamo sempre sognato. La gioia che provo vale tutto il dolore, tutta la paura, tutto il senso di tradimento e di abbandono che abbiamo patito negli ultimi quattordici anni». Omar Alshogre, 29 anni, non trattiene l’emozione nel vedere le immagini dalla sua Siria libera da una dittatura lunga più di mezzo secolo.

Nato a Baniyas, nella regione costiera abitata perlopiù da alawiti, la minoranza a cui appartiene la famiglia Assad, ha conosciuto da giovanissimo il volto più brutale del regime di Bashar: gli arresti durante le proteste del 2011, le torture e la fame durante i tre anni di detenzione nelle carceri stipate di oppositori politici, tra cui il “mattatoio di Sednaya”. Poi la fuga e l’asilo in Svezia, dove oggi vive e lavora per l’ong Syrian Emergency Task Force. Per Domani ripercorre con la memoria quel percorso, a cui oggi riesce a dare un senso.

«La prima volta che sono stato arrestato avevo 15 anni. Ero un ragazzo normale: andavo a scuola, mi piaceva tantissimo nuotare e il mio primo pensiero era come conquistare la ragazza di cui ero innamorato. Non avevo la più pallida idea di cosa fosse la politica, la democrazia, l’attivismo: in Siria è sempre stato un argomento tabù, non se ne parla. Anzi, sin da piccolo mi era stato insegnato che i muri, le porte, i mobili avessero le orecchie per poter riferire al Presidente qualsiasi cosa dicessimo di lui».

Il giorno più lungo

Omar ricorda con precisione una data: 18 marzo 2011. «Ho ricevuto una chiamata da mio cugino: "corri in paese, gli uccelli stanno volando”. Era un’espressione in codice per dire che c’erano proteste».

Sono i primi giorni della mobilitazione che presto prenderà tutta la Siria per poi sfociare, per volontà del regime, prima in guerra civile e poi in conflitto internazionale. «All’inizio sembrava un concerto: migliaia di persone, uomini e donne, che cantavano e ballavano con fiori e rami di ulivo in mano». Finché è arrivata la polizia e ha iniziato a sparare. E improvvisamente vedi persone che corrono, urlano, un amico che sta morendo accanto a te. Avrei voluto scappare, ma ero come immobilizzato. Gli agenti sono arrivati, mi hanno messo a terra, le mani legate dietro la schiena, e hanno iniziato a saltare sopra di me, dicendomi di urlare "Sacrifichiamo il nostro corpo e il nostro sangue per te, presidente!”, sempre più forte».

Poi il trasferimento in caserma con altri arrestati: «Ne prendevano uno, lo interrogavano, lo torturavano, e poi lo facevano uscire, distrutto psicologicamente e fisicamente, e ne chiamavano un altro».

Finché è arrivato il turno di Omar. Prima domanda: «Quanti agenti hai ucciso?». «Ovviamente ho risposto nessuno. Mi sembrava assurdo, anche perché non era morto nessun agente quel giorno. Allora hanno iniziato a picchiarmi continuando a chiedermi "Quanti ne hai uccisi?”. Ho resistito per qualche minuto, finché il dolore è diventato insopportabile. “Uno!”. “No, ne hai uccisi di più”, mi hanno detto. “Va bene, due”. E mi hanno fatto firmare quella falsa confessione con l’impronta del dito».

Omar e gli altri arrestati hanno passato due giorni in prigione. Il terzo sono arrivati gli agenti e hanno detto che li avrebbero giustiziati tutti. «Mi hanno caricato in una macchina e hanno iniziato a guidare. A un certo punto l’auto si è fermata: decine di donne bloccavano la strada per protestare contro l’arresto dei loro mariti».

Dentro e fuori il carcere

Dopo un negoziato, gli agenti hanno accettato di liberare alcuni prigionieri, a partire dai più giovani. Omar è stato tra i primi. «Fino a qualche minuto prima pensavo che sarei morto, e ora eccomi vivo. Lì ho assaporato per la prima volta la libertà. E quando capisci cos’è la libertà, non puoi più vivere senza».

Così, tornato a casa, alla prima occasione si è unito di nuovo alle proteste. Verrà arrestato altre sei volte e rilasciato altrettante dopo qualche giorno grazie all’intercessione del padre, ex ufficiale, spesso accompagnata da mazzette per le guardie.

L’ultima volta, però, è stata diversa. «Avevo 17 anni e sono finito di nuovo in prigione – racconta –. Una settimana, un mese, un anno, ed ero ancora lì. Ho iniziato a preoccuparmi: “Se nessuno viene a tirarmi fuori, vuol dire che è successo qualcosa anche alla mia famiglia”, pensavo. Poi hanno arrestato mio cugino Hassan, che mi ha detto che avevano ucciso mio padre e i miei fratelli. Ho vissuto per mesi in prigione convinto di non avere più una famiglia. E se non hai una famiglia fuori e i tuoi amici stanno tutti morendo in prigione, non ti resta più nulla per cui vivere. E questo è quello che il regime vuole farti credere: che sei solo, che a nessuno importa di te, né ai siriani, né tantomeno al resto del mondo».

Nei tre anni di detenzione ininterrotta che sono seguiti, Omar ha passato diverse prigioni, tra cui il celebre “mattatoio di Sednaya”. Ricorda la fame estrema, le torture, dall’elettrocuzione alle unghie strappate, il peso dei corpi senza vita che spesso le guardie gli comandavano di trasportare, il dolore alle articolazioni per le ore passate in piedi o rannicchiato, perché la cella era talmente affollata da non permettere nemmeno di sdraiarsi.

Ma anche i gesti di solidarietà dei compagni di prigionia, che nutrivano particolare affetto per il più giovane. Quando verrà liberato nel giugno del 2015, grazie ai 15mila dollari raccolti dalla madre per corrompere gli agenti, Omar peserà solo 34 chili, eredità della fame e della tubercolosi.

Oggi guarda le immagini della liberazione dei prigionieri di Sednaya commosso, in un misto di gioia per chi ha spezzato le catene e compassione per chi sperava di trovare nelle celle parenti e amici scomparsi da anni, ma è rimasto deluso.

Ora non vede l’ora di tornare: «Voglio rivedere la mia casa, fosse anche bruciata, il mare, mia nonna, mia sorella, conoscere finalmente i suoi figli», dice. Promette che non smetterà di chiedere che Assad e i vertici del suo regime affrontino la giustizia per i crimini commessi. E per la nuova Siria ha un solo desiderio: «Vogliamo la democrazia, le elezioni. Abbiamo lottato, siamo stati torturati e uccisi per questo».

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