Le atrocità di uno dei grandi conflitti dimenticati restano inosservate: nel paese non ci sono quasi più osservatori, diplomatici, giornalisti. Per questo la ricerca che pubblichiamo in esclusiva per l'Italia è importante. È stata realizzata dal Center for information resilience e documenta gli incendi che devastano il paese per costringere la popolazione a fuggire. I rifugiati sudanesi sono cresciuti fino a 8,1 milioni
Incendiare case, distruggere interi villaggi, costringere le persone a scappare per poi occuparne il territorio. Così si combatte da un anno in Sudan, uno dei tanti conflitti dimenticati in corso nel mondo, in assoluto quello che – secondo le Nazioni Unite - «rischia di creare la più grande crisi alimentare». L'Onu stima infatti che 24,8 milioni di cittadini sudanesi, cioè un abitante su due, avranno bisogno di aiuti umanitari quest'anno. E l'Unhcr ricorda che già oggi circa 1,2 milioni di sudanesi si sono rifugiati all'estero, principalmente in Ciad ed Egitto. La guerra che sta lacerando il Paese e intaccando l'intera regione, però, resta fuori dagli interessi apparenti delle cancellerie occidentali.
In Sudan non c'è quasi più nessun osservatore europeo o americano a monitorare ciò che succede. Non ci sono i diplomatici occidentali, che hanno abbandonato in massa Khartoum dopo lo scoppio del conflitto. Nemmeno i grandi media internazionali, ad eccezione di pochissimi casi, raccontano più la guerra sul campo: pericoloso farlo con i propri reporter, che comunque quasi mai vengono fatti entrare nel Paese, mentre usare giornalisti locali è sempre più difficile dato che molti di loro sono stati arrestati nel corso dell'ultimo anno.
Per questo la ricerca che pubblichiamo in esclusiva per l'Italia è importante, perché permette di ricostruire alcuni fatti avvenuti dall'inizio del conflitto. È stata realizzata dal Center for information resilience, una ong britannica specializzata in analisi basate su fonti aperte, come foto e video pubblicati sui social network.
Geolocalizzando questi file e sovrapponendoli alle immagini satellitari (fornite dalla Nasa), i ricercatori sono arrivati ad alcune conclusioni che richiamano alla mente i crimini commessi in Darfur a partire dal 2003, con il tentativo di annientare le popolazioni non arabe che abitano la regione.
Dramma umanitario
Dal 15 aprile del 2023 al 29 febbraio scorso, sono stati almeno 108 i villaggi sudanesi incendiati: totalmente o parzialmente distrutti. Tutti gli episodi sono avvenuti in due regioni del Sudan: il Kordofan e, appunto, il Darfur. Sono regioni confinanti, che occupano una buona fetta della parte sudest del Paese.
Il Darfur è già stato teatro di uccisioni mirate, violenze sessuali, incendi di abitazioni e sfollamenti di massa dieci anni fa da parte dei janjaweed, il gruppo a maggioranza araba finanziato dall'allora dittatore Omar al-Bashir. Secondo la ricerca condotta dal Center for information resilience nell’ambito del progetto Sudan Witness, quasi tutti gli incendi appiccati nei vari villaggi sono da attribuire alle Rsf (Rapid Support Forces), naturale prolungamento dei janjaweed. In alcuni casi, tuttavia, i ricercatori collegano i roghi ad attacchi aerei delle Saf, le forze armate guidate generale Abdel Fattah Burhan.
La guerra è iniziata ufficialmente un anno fa, quando un colpo di stato ha destituito il primo ministro, Abdalla Hamdok. A far scattare la miccia sono state le trattative per un accordo che avrebbe condotto alla costituzione di un unico esercito nazionale, comprendente sia le Saf che le Rsf guidate dal generale Mohammed Hamdan Dagalo, meglio conosciuto come Hemedt. Temendo una perdita di potere e di controllo su miniere e risorse del Paese, le Rsf si sono sfilate dall'accordo e hanno iniziato a combattere contro i rivali delle Saf. Il conflitto tra militari si è rapidamente trasformato in un dramma umanitario. Secondo l'ultimo aggiornamento dell'Onu, ci sono al momento 8,1 milioni di rifugiati sudanesi, di cui 1,6 milioni sono fuggiti all'estero. Le persone decedute a causa del conflitto sono 139mila. La situazione sanitaria è disperata, con 10.700 casi di colera registrati e quasi 300 vittime già accertate.
Lo schema degli incendi
Dei 108 villaggi dati alle fiamme, il Center for information resilience ha analizzato nello specifico alcuni casi dove i roghi si sono ripetuti più volte o sono stati molto intesi. Uno dei luoghi più colpiti è stato Misterei, tra le più grandi città di confine del West Darfur, a pochi chilometri dalla frontiera con il Chad, abitata in maggioranza dall'etnia Massalit.
Qui, tra il 29 maggio e il 2 giugno 2023, secondo le immagini satellitari ottenute dai ricercatori ci sono stati molti incendi. Proprio in quei giorni, secondo un report di Human Rights Watch, la città è stata presa d'assalto dalle milizie dell'Rsf. Il Center for information resilience ha trovato anche un video girato in quelle ore nel centro della città: si vedono case distrutte, e la persona che registra il video accusa la popolazione locale dei Nuba di aver commesso omicidi e dice «chi la fa l'aspetti».
Nell’ottobre 2023, quando ormai la città era già stata in larga parte abbandonata dai suoi abitanti, l'ong britannica ha individuato nuovi incendi in città. In questo caso i roghi sembrano seguire uno schema: il fuoco è stato appiccato ad intervalli regolari seguendo le linee della planimetria di Misterei. Tra l'11 e il 31 ottobre 2023, hanno calcolato i ricercatori, sono stati bruciati 3.750 metri quadrati di territorio, più del 60% della città.
Molti incendi sono stati individuati nel Kordofan. Nelle città di Al Takma, Habila, e Jabal ad Dayr, in particolare, lo studio è riuscito a isolare diverse aree bruciate dai roghi accesi tra dicembre del 2023 e febbraio di quest'anno. Sui social network sono apparsi video in cui, negli stessi giorni, uomini con indosso uniformi delle Rsf si aggiravano in quei luoghi. Una dinamica simile si è verificata in Sud Darfur, nella zona di Kubum, dove a combattere sono invece le due tribù dei Salamat e dei Beni Halba.
Gli interessi dietro al conflitto
In alcuni video verificati dal Center for information resilience, membri della tribù dei Beni Halba indossavano uniformi dell'Rsf. Tra i casi analizzati in profondità ce ne sono però alcuni che riconducono la responsabilità dei danni all'aviazione delle Saf. I ricercatori sono riusciti a stabilire ad esempio che il 20 febbraio scorso, in tre zone della città di El Dein, nel nord del Darfur, ci sono stati incendi, ma anche danni ad edifici non provocati dal fuoco. La notte del 20 febbraio, secondo diversi media, i militari delle Saf avevano bombardato El Dein.
La contesa vede dunque da una parte le Saf di al-Burhan, presidente del consiglio sovrano di transizione del Sudan, e dall'altra il capo dei ribelli delle Rsf, Hemedt. Dietro i due militari, che nel 2021 collaborarono per il colpo di Stato (quello che portò al potere Hamdok, destituito ad aprile dell'anno scorso) e oggi si fanno la guerra, ci sono però gli interessi di altri Paesi: attori regionali come Egitto, Etiopia e Arabia Saudita, ma anche grandi Paesi come Stati Uniti, Cina e Russia. In palio ci sono soprattutto le miniere d'oro (dislocate soprattutto nella parte di territorio sotto il dominio delle Rsf), lo sbocco navale sul Mar Rosso, le acque del Nilo. E il controllo di un Paese grande quanto Francia, Germania, Spagna e Italia messe insieme.
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