Le guerre, si sa, finiscono quando una delle due parti prevale sull’altra. Può essere perché definitivamente sconfitta, perché la parte perdente vede la trattativa come l’ultimo modo per ottenere qualcosa, oppure perché chi sta prevalendo sente di poter capitalizzare quanto guadagnato sul campo.

Nessuna di queste condizioni sembra oggi soddisfatta nello scenario di Gaza, dove, piuttosto, spiccano i motivi perché il conflitto, anche non con la stessa forza distruttiva vista nelle prime settimane, prosegua.

Motivi, che, sostanzialmente, si riassumono nella necessità delle due parti a proseguire lo scontro, pena la scomparsa politica. Da un lato, anche gli ultimi sondaggi paiono condannare in modo inderogabile Benjamin Netanyahu.

Già da tempo dato coi voti dimezzati rispetto alle ultime elezioni, il suo partito Likud, egemonizzato a suon di epurazioni, distacchi e alleanze con altre forze politiche e da tempo simile agli odierni partiti personali sembra aver perso la fiducia anche di ampi settori dell’elettorato più fedele, persuaso che debba prevalere la sorte degli ostaggi rispetto ad una improbabile sconfitta di Hamas, che semmai si è politicamente rafforzata dalla sconsiderata azione portata avanti dal governo israeliano, costretto a spostare l’asticella dell’obiettivo sempre un po’ più in là, fino a raggiungere il fondo della Striscia.

Oltre a questo si possono solo travalicare i confini, spingendo per un’estensione del conflitto. L’attacco alla sede consolare iraniana in Siria faceva pensare in questa direzione, visti i motivi ancora imperscrutabili.

Si dice che, in casi analoghi, le intelligence approfittino delle finestre che si aprono per colpire, consci che chissà quando potrebbe presentarsi una stessa occasione. Se questo è vero, resta ai miei occhi misterioso come si possa non considerare l’opportunità politica di una simile azione.

Se si lascia Atene e si guarda Sparta, la situazione è persino peggiore. Abbandonata da tutto il mondo arabo-sunnita, che, al di là delle parole di circostanza, si è addirittura unito ad Israele nel respingere l’attacco iraniano, Hamas ha dovuto subire il mantenimento in vita degli Accordi di Abramo, che attendono definitiva implementazione.

Abbandonata persino dai palestinesi della Cisgiordania, mai unitisi alla lotta nonostante quanto stanno subendo dagli abitanti degli insediamenti, l’organizzazione terroristica, o resistente a seconda dei punti di vista, non solo non misura la possibilità della resa in base a quanto subito dalla sua popolazione civile, ma pare ancorata all’unico schema possibile fin dall’inizio del conflitto: sperare che i governi musulmani siano costretti all’intervento per la pressione delle opinioni pubbliche.

In fondo, lo stesso schema, ma su scala minore a causa della forma molto localizzata di Hamas, tentato da Bin Laden con l’11 settembre. Finora, nonostante la guerra distruttiva portata avanti da Israele, nessuno ha seguito lo spartito.

I regimi arabi hanno, semmai, messo in piedi il consueto apparato repressivo, temendo che l’appoggio alla causa palestinese si traduca in una destabilizzazione interna. Nemmeno l’Iran, a Hamas legata a doppio filo da anni, ha voluto aprire un fronte diretto con lo Stato ebraico, anche se la «nuova equazione» messa in campo dai pasdaran è novità non trascurabile.

Per Hezbollah vale, ad oggi, il primo discorso di Nasrallah: della serie, non vogliamo entrarci, non costringeteci ad intervenire. Chiaro che la situazione nel nord di Israele resta critica, con decine di migliaia di sfollati ancora chiusi negli alberghi o in sistemazioni provvisorie. Gli attacchi houti incidono sul commercio globale, così come la risposta iraniana, telefonata sì, piccola no.

Tutti elementi non da poco, ma lo scenario, dato quanto stanno subendo i palestinesi, avrebbe potuto essere assai peggiore. Tutto questo per dire che queste trattative assomigliano sempre più al gioco del cerino con cui le reciproche diplomazie vogliono far ricadere sull’intransigenza dell’altra parte il proseguire della guerra. Stessa sorte sembrano aver subito le ultime trattative con cui si sperava di giungere all’agognato cessate il fuoco: nel momento in cui una parte accetta, l’altra si sfila adducendo qualsiasi tipo di motivazioni.

Non è dal campo di battaglia, dove la situazione è chiarissima fin dal principio, che potrà venire un cambio della situazione, ma dalla politica. In particolare da quella interna ad Israele, perché i palestinesi non sono da tempo un soggetto unitario.

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