Lo stupore per l’avanzata tecnologica della Cina e il timore che la supremazia dell’America sia al tramonto sono riecheggiati mercoledì scorso nelle aule del Congresso, dove è stato presentato un importante studio sulle capacità d’innovazione di Pechino, mentre nelle commissioni parlamentari il sottosegretario Campbell ascoltava l’allarme su una guerra che gli Stati Uniti potrebbero perdere.

«Il sistema di innovazione cinese non è perfetto, ma è molto più forte di quanto pensassimo». Così Stephen Ezell ha riassunto le conclusioni di “China Is Rapidly Becoming a Leading Innovator in Advanced Industries”, redatto dal think tank con sede a Washington Information Technology and Innovation Foundation (Itif). Il rapporto, frutto di 20 mesi di ricerca su 44 aziende cinesi hi-tech, rivela che in alcuni settori strategici la seconda economia del pianeta ormai è in testa, mentre in altri insegue da vicino gli Usa e le economie più avanzate.

Il report – che ha analizzato investimenti in ricerca e sviluppo, personale, team aziendali dedicati, quote di mercato e riconoscimenti internazionali ottenuti – evidenzia che la Cina ha un vantaggio di 10-15 anni sugli Usa nella costruzione di centrali nucleari di IV generazione, come quella di Shidaowan, in funzione dal 6 dicembre scorso nella provincia settentrionale dello Shandong.

Si tratta di un impianto che ha segnato un notevole progresso in termini di riduzione dei costi, sicurezza, efficienza e sostenibilità. Proprio in riferimento a Shidaowan qualche giorno fa l’Economist ha titolato: “China is beating america in the nuclear-energy race”, mentre la Cnbc ha definito «un testamento del loro dominio precedente» i 93 vecchi reattori attivi negli Usa. Essere così avanti nei reattori raffreddati a elio (Htgr) significa non soltanto poter immettere nella rete elettricità (e idrogeno) riducendo le emissioni di anidride carbonica, ma anche imporre la propria tecnologia nei mercati internazionali, come la Cina (che ha 56 reattori operativi e 28 in costruzione) sta già facendo, soprattutto in Africa e Asia.

La ricerca nell’indotto

Ezell ha ricordato che nel 1985 la Cina era in grado di sfornare solo 5.200 automobili. La stima per quest’anno è di 26,8 milioni (il 21 per cento del mercato globale, che dovrebbe salire al 30 per cento entro la fine del decennio).

Una scommessa vinta (grazie alla politica industriale, a massicci aiuti statali e, non ultima, alla capacità di innovare) con i veicoli elettrici (Ev), in particolare scommettendo – come alternativa a quelle al litio – sulle batterie al litio-ferro-fosfato (Lfp), che hanno fatto la fortuna delle multinazionali cinesi guidate dalla capolista Catl, che occupano sei delle prime dieci posizioni dei maggiori produttori globali e rappresentano il 77 per cento della manifattura globale di batterie per Ev. Alimentati da motori economici ed efficienti, gli Ev cinesi sono il 62 per cento di quelli fabbricati in tutto il mondo. Un caleidoscopio di centinaia di modelli e startup che traina l’innovazione di un indotto di migliaia di aziende che si occupano di guida intelligente, navigatori, sistemi di entertainment di bordo e così via.

Per quanto riguarda invece la robotica, il report di quello che è considerato uno tra i più autorevoli think tank al mondo sulle politiche industriali e tecnologiche rileva che – ad eccezione di Kuka, il produttore tedesco acquisito da Midea nel 2016 – le aziende cinesi non risultano innovative quanto le americane, le sudcoreane o le giapponesi. Ciononostante nel 2023 la Cina ha prodotto 430.000 robot industriali, mentre nel triennio 2021-2023 l’installazione di nuovi robot ha sempre superato la metà del totale globale, ed è dunque ancora da valutare l’impatto che potrà avere sul suo sistema industriale.

Robot e studenti Stem

Anche sui microprocessori la Cina ha un ritardo di due-cinque anni: il nuovo Kirin 9000 che funge da cervello degli smartphone Huawei di alta gamma è il frutto di una capacità di adattamento delle tecnologie in essere piuttosto che di una svolta innovativa da parte del colosso di Shenzhen, sotto sanzioni Usa dal 2019. A tal proposito l’Itif ha evidenziato gli “effetti collaterali” delle restrizioni varate dall’amministrazione Biden, che ha bloccato l’esportazione verso la Cina dei microchip più avanzati (ad esempio quelli della californiana Nvidia) e dei macchinari per fabbricarli (come quelli dell’olandese Asml).

Avere nello stesso tempo rinunciato, lasciandola quasi interamente nelle mani dei concorrenti-avversari, alla manifattura dei processori meno performanti, farà sì che la stragrande maggioranza delle industrie (compresa quella dell’automotive) dipenderà da cervelli elettronici cinesi, dal momento che quelli più avanzati vengono impiegati solo in categorie ristrette di prodotti hi-tech.

Rick Switzer – ricercatore dell’Itif ed ex funzionario del dipartimento di stato addetto alle politiche tecnologiche – ha inoltre fatto notare che il 70 per cento degli studenti cinesi nelle materie scientifiche e tecnologiche non rimane negli Stati Uniti dopo essersi laureato nelle loro università, ma va ad alimentare la ricerca nelle aziende e nei laboratori statali cinesi.

Considerazioni amare per gli States, che nel 1990 detenevano il 37 per cento della capacità produttiva globale di microchip, ridottasi all’attuale 12 per cento, che potrebbero aprire la strada a un’accelerazione del decoupling tecnologico in corso tra la seconda e la prima economia del pianeta, indipendentemente da chi vincerà le elezioni del 5 novembre.

A conclusione della presentazione del report dell’Itif, il deputato John Moolenaar, repubblicano del Michigan ha invitato a “dis-innovare il Partito comunista cinese”: «Le restrizioni alle esportazioni e ai capitali in uscita sono una condizione necessaria per la nostra vittoria sul Pcc, e combinando questi strumenti con investimenti nella nostra innovazione, possiamo vincere», ha affermato il neo presidente del (bipartisan) comitato speciale della Camera sulla Competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese, istituito durante l’amministrazione Biden per promuovere un antagonismo da nuova guerra fredda tra Washington e Pechino.

Perdere la guerra?

Nelle audizioni del sottosegretario di stato, Kurt Campbell, presso le commissioni sulla Strategia di difesa nazionale ed esteri hanno trovato sfogo le lagnanze di chi ritiene che la Cina vada battuta come venne sconfitta l’Unione Sovietica. L’ex sotto segretario alla Difesa, Eric Edelman, ha dichiarato che «esiste la reale possibilità di una guerra a breve termine, che sarebbe difficile immaginare non essere una guerra globale. E c’è la possibilità che potremmo perdere un simile conflitto. La partnership tra Cina, Russia, Iran e Corea del Nord rappresenta un importante cambiamento del contesto strategico».

All’esponente del partito repubblicano, il sottosegretario di stato democratico ha risposto che «la Guerra Fredda impallidisce al confronto», lamentando che il Pentagono (che per il 2024 ha un budget di 825 miliardi di dollari) e gli altri dipartimenti deputati ad affrontarla avrebbero bisogno di più personale e più tecnologia avanzata.

Secondo Campbell «il principale terreno di competizione è la tecnologia. Quindi serve più personale nel governo che sappia cos’è l’intelligenza artificiale, cos’è l’informatica quantistica, come creare incentivi per le nostre industrie, ma che impedisca anche ad alcune delle capacità critiche di farsi strada nei paesi che stanno competendo intensamente con noi».

Mentre il presidente della commissione Affari esteri, Michael McCaul, ha lamentato i ritardi nella cooperazione con gli alleati di Aukus (Australia e Regno Unito), la principale partnership militare statunitense nell’Asia-Pacifico. «L’amministrazione mantiene ancora un lungo elenco di tecnologie esclusive che limita l’efficacia (di Aukus). L’incapacità di portare avanti e rafforzare queste partnership rappresenta un incoraggiamento per il governo cinese», ha denunciato il repubblicano texano.

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