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Il dilemma della democrazia può essere sintetizzato nell’interrogativo “renderli simili o inoffensivi?”. L’analisi storica suggerisce che quando l’ordine a guida americana non si trova sottoposto a minacce strategiche, gli Stati Uniti perseguono tendenzialmente l’obiettivo della similitudine.
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Ma quando si materializza la sfida al loro primato, la diffusione della democrazia viene declassata a obiettivo secondario in quanto capace di produrre benefici solo nel medio-lungo termine. Washington, di conseguenza, accorda priorità all’inoffensività, i cui benefici sono verificabili nel breve termine.
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Questo articolo si trova nell'ultimo numero di SCENARI – il settimanale di geopolitica di Domani, dal 4 novembre in edicola e in digitale.
«Gli Stati Uniti continueranno a difendere la democrazia […]. Democrazie e regimi autoritari sono impegnati nella sfida di mostrare quale sistema di governo funzioni meglio per i loro cittadini e per il mondo».
La democrazia occupa un posto centrale nella National security strategy che l’amministrazione Biden ha pubblicato nel mese di ottobre, al cui interno viene delineato un contesto politico-strategico nel quale le principali potenze autoritarie sono impegnate a «fare gli straordinari per minarla ed esportare un modello di governo contraddistinto da repressione domestica e coercizione all’estero».
Come accaduto a tutti i suoi predecessori, anche per il presidente in carica essa rappresenta un oggetto di riflessione ineludibile, la cui origine va ricercata nel mito della “città sopra la collina” di John Winthrop e che nello studio ovale rappresenta un convitato di pietra quanto meno da quando Woodrow Wilson ha comunicato al mondo che il suo paese sarebbe entrato nella Grande guerra per «rendere il mondo sicuro per la democrazia».
Cosa fare con la democrazia e quale ruolo attribuirle nella grand strategy americana, ad ogni modo, non costituiscono domande retoriche, così come si potrebbe essere indotti a pensare in un primo momento. Tali quesiti, d’altronde, risultano intimamente legati al potere e al prestigio di Washington nonché ai calcoli strategici che da essi derivano. Proprio per tali ragioni, assumono spesso le forme di un vero e proprio dilemma sull’atteggiamento da tenere nei confronti della sfera politica interna degli altri stati, funzionale non al perseguimento di qualche astratto imperativo etico ma alla molto più concreta preservazione della sicurezza e del primato globale degli Stati Uniti.
Renderli simili o inoffensivi?
Il dilemma della democrazia può essere sintetizzato nell’interrogativo “renderli simili o inoffensivi?”. Laddove con “simili” si intende una politica volta a favorire o a promuovere attivamente la democratizzazione degli altri paesi, mentre con “inoffensivi” si indica la ricerca del loro allineamento su questioni strategiche – quelle da cui dipende la sopravvivenza o meno dell’ordine a guida americana – senza badare troppo al loro assetto istituzionale interno.
Sebbene la politica americana non rinunci mai alla potenza narrativa del concetto di democrazia, la scelta tra la ricerca della similitudine o dell’inoffensività degli altri stati non sembra dipendere da preferenze e valori personali dei presidenti o dalla loro appartenenza al partito repubblicano piuttosto che a quello democratico. Talvolta è accaduto che amministrazioni dello stesso colore abbiano attuato politiche anche radicalmente diverse in merito. Altre volte, invece, amministrazioni politicamente agli antipodi hanno optato per soluzioni sostanzialmente affini sul tema.
Solo per citare i casi più eclatanti, si pensi a come tanto Harry Truman quanto Ronald Reagan abbiano tendenzialmente scelto la strada della promozione attiva della democrazia, mentre Lyndon Johnson e Richard Nixon si siano pragmaticamente – e molto più spesso, cinicamente – limitati a chiedere ai loro partner un ferreo allineamento rispetto al confronto globale tra Stati Uniti e Unione sovietica.
Il mutare delle intenzioni della Casa bianca, quindi, è difficilmente spiegabile guardando alla sfera politica interna. Al contrario, sembra collegato al variare delle condizioni materiali nell’ambiente internazionale in cui Washington si muove. L’analisi storica, infatti, suggerisce che quando l’ordine a guida americana non si trova sottoposto a minacce strategiche, gli Stati Uniti perseguono tendenzialmente l’obiettivo della similitudine. Ma quando si materializza la sfida al loro primato – sotto le sembianze dell’Unione sovietica negli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso o quelle della Repubblica popolare cinese e della Federazione russa a partire dagli anni Dieci di questo secolo – la diffusione della democrazia viene declassata a obiettivo secondario in quanto capace di produrre benefici solo nel medio-lungo termine. Washington, di conseguenza, accorda priorità all’inoffensività, i cui benefici sono verificabili nel breve termine.
La democrazia nel post Guerra fredda
Al dilemma della democrazia, ovviamente, non sono sfuggite neanche le amministrazioni del post Guerra fredda. Nel decennio successivo alla sconfitta dell’Unione sovietica lo strapotere americano – in termini politici, militari, economici e ideologici – e l’assenza di sfidanti ha permesso all’amministrazione Clinton di fornirgli una risposta inequivocabile. Dopo qualche titubanza legata alla promessa elettorale di tagliare gli impegni internazionali, il democratic enlargement è divenuto il perno intorno a cui avrebbe girato la nuova grand strategy americana.
Durante il primo mandato di Bill Clinton il principale paese-target di questa politica è stato la Federazione russa, la cui democratizzazione era considerata funzionale alla sua reintegrazione nell’ordine internazionale e a innescare un effetto contagio nel resto dei paesi post comunisti. Gli Stati Uniti, pertanto, hanno rafforzato i fondi del Seed Act e il Freedom support Act (1993) adottati negli anni di George H.W. Bush a sostegno della duplice transizione verso democrazia e libero mercato dell’Europa orientale e dello Spazio post-sovietico. Coerentemente, hanno sostenuto la rielezione di Boris Eltsin alle presidenziali russe del 1996, considerato l’unica figura in grado di contrastare l’ascesa al potere di forze illiberali come il Partito comunista di Gennadij Zjuganov e il Partito liberal-democratico di Vladimir Zhirinovsky.
Il progressivo disincanto verso il successo della democratizzazione a Mosca, ha spinto Washington sia a riorientare il proprio impegno verso gli stati di nuova indipendenza che ad accelerare la membership di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca nella Nato (1999). Ad ogni modo, le tragiche conseguenze della disgregazione della Jugoslavia, hanno portato i Balcani al centro della sua agenda.
Nei confronti della Serbia sono state sperimentate due politiche. Con l’operazione Allied Force della Nato (1999) è stato realizzato il primo intervento umanitario per arrestare la pulizia etnica in corso in Kosovo ai danni della minoranza albanese. A questo è stato associato, in vista delle elezioni presidenziali del 2000, un programma di sostegno alle forze democratiche serbe, per cui erano stati stanziati circa $40 milioni attraverso Usaid, Ned e diverse ong americane. All’indomani delle elezioni, infine, Washington ha fornito copertura politica ai movimenti di protesta contro i brogli elettorali avvenuti al primo turno, che hanno portato alla deposizione di Slobodan Milosevic e al riconoscimento della vittoria del candidato filo-occidentale Vojislav Kostunica.
Dopo l’11 settembre
La tragedia dell’11 settembre ha indotto George Bush jr., che in campagna elettorale aveva accusato Clinton di aver sperperato risorse americane all’estero, a mantenere un certo grado di continuità con il suo predecessore. La lotta contro il terrorismo ha fatto maturare alla Casa bianca la conclusione che occorresse “prosciugare l’acqua in cui questo nuotava”, ovvero abbattere i regimi autoritari che lo foraggiavano o che erano all’origine di tale metodo di lotta politica.
In tal prospettiva, Washington ha optato per la soluzione di esportare la democrazia anche “in punta di baionette”, come avvenuto in casi Afghanistan (2001) e Iraq (2003). Nei piani del governo americano soprattutto la seconda operazione avrebbe dovuto innescare un “effetto domino” democratico in medio oriente. Alla base di tale scelta vi era la convinzione che l’abbattimento del regime di Saddam Hussein, da un lato, avrebbe indotto alcuni governanti autoritari a guidare una transizione democratica per salvare la pelle o una fetta di potere e, dall’altro, avrebbe spinto alcuni popoli dell’area ad abbattere in regimi oppressivi sotto i quali vivevano per ottenere libertà civili e diritti politici.
L’implementazione della cosiddetta Freedom agenda è passata anche per il perfezionamento del modello di regime change sperimentato in Serbia. Washington ha iniziato a fornire supporto economico e politico, sia attraverso le sue agenzie che attraverso le ong, agli attori che si opponevano ai governanti autoritari in quei paesi dove venivano tenute consultazioni, sebbene non free and fair. Lo Spazio post sovietico, ma non solo, è divenuto la principale area-target di questa politica, che si è tradotta nelle cosiddette “rivoluzioni colorate” in Georgia (2003), Ucraina (2004), Kirghizistan (2005) e Libano (2005).
L’America torna sulla difensiva
Sin dagli ultimi anni della presidenza Bush, tuttavia, lo spettro del declino dell’ordine a guida americana è tornato ad aleggiare in seguito al fallimento delle missioni in Afghanistan e Iraq e alla crisi economico-finanziaria del 2007-2009. Contestualmente, a seguito dell’ormai noto discorso di Vladimir Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 e dell’ascesa al potere di Xi Jinping tra il 2012 e il 2013, la Russia e la Cina hanno progressivamente assunto una postura revisionista nei suoi confronti.
Questo primo riassestamento degli equilibri internazionali ha nutrito riflessi immediati con l’avvicendamento alla Casa bianca. Se nel suo discorso di insediamento Barack Obama è stato il primo presidente dai tempi di Reagan a non menzionare l’impegno dell’America nella promozione della democrazia, nell’audizione per la sua conferma al ruolo di segretario di Stato Hillary Clinton ha sintetizzato la propria visione della politica estera in tre “D” – diplomacy, defence, development – escludendone una quarta – quella di democracy. Al mutamento retorico corrispose anche quello strategico, con particolare riguardo alle politiche realizzate in medio oriente e nord Africa.
Di fronte alle proteste di massa in Iran (2009-2010) contro le frodi elettorali che avevano portato alla conferma di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza, Washington non ha fornito un sostegno concreto al “Movimento verde”. Al cospetto delle Primavere arabe (2011), invece, la Casa bianca ha scaricato Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto solo quando fu chiaro – soprattutto nel secondo caso – che il loro potere era agli sgoccioli. Al governo del Bahrein, invece, ha chiesto di fermare la repressione in corso contro le sollevazioni popolari, ma non ha dato nessun endorsement ai manifestanti sospettati di essere sostenuti da Teheran in quanto sciiti.
In parziale controtendenza è stata la scelta di sostenere in Siria la causa dei ribelli – non tutti con uno specchiato pedigree democratico – contro Bashir al-Assad, che però era funzionale anche come strumento di pressione nei confronti dell’Iran – “stato-padrino” del regime di Damasco – nella partita per l’accordo sul nucleare (2015).
Sempre nell’ambito del più vasto tentativo dell’amministrazione Obama di trasformare i rivali strategici in partner strategici, Washington non ha mosso rimostranze sul ritorno al potere in Ucraina (2010) di quel Viktor Yanukovych contro cui si era sollevata la Rivoluzione arancione. Solo dopo l’esaurimento del Russian reset, infatti, è tornata a tenere una posizione dura nei confronti di Mosca, sostenendo sin dal principio le proteste dell’Euromaidan (2013-2014).
La presidenza Trump
La presidenza di Donald Trump, in tema di promozione democratica, è stata marcata da una sostanziale continuità con quella di Obama, sebbene abbia introdotto un elemento di novità con il suo ostentato disincanto nei confronti dell’universalismo dei principi e dei modelli politici americani. Il nuovo corso della Casa bianca, tuttavia, ha fatto comunque ricorso alla democrazia nella sua narrativa quale strumento per tenere sotto “massima” pressione gli avversari, giudicati ormai non più reintegrabili nell’ordine internazionale.
In tal prospettiva, risultano esemplari i rapporti con la Cina e la Corea del nord. Già nel dicembre 2016, da presidente-eletto, Trump ha messo in discussione uno dei pilastri della relazione sino-americana – la One China policy – stabilendo un rapporto diretto con Tsai Ing-wen con la prima telefonata dal 1979 di un presidente americano a uno taiwanese.
Nonostante avesse confermato in numerose occasioni il suo impegno per la sicurezza dell’isola e contrapposto il suo modello politico al totalitarismo della Cina continentale, il nuovo inquilino della Casa bianca non ha preso comunque mai in considerazione l’ipotesi di una visita sull’isola per evitare qualsiasi escalation con Pechino. Stesso discorso sul caso di Hong Kong. Di fronte alla repressione delle imponenti proteste di piazza contro il disegno di legge sull’estradizione in Cina (2019-2020), l’amministrazione Trump si è astenuta dal fornire sostegno materiale a gruppi e movimenti di opposizione o dal coordinare un effettivo sforzo di condanna internazionale nei confronti di Pechino.
Ancor più spregiudicato è stato il ricorso alla retorica sulla democrazia nei confronti della Corea del nord. Le critiche sulla natura dispotica del regime di Pyongyang, infatti, sono sembrate funzionali a mettere nell’angolo il leader nordcoreano Kim Jong-un per indurlo a modificare le sue politiche sul nucleare. Nel corso di una visita a Seul nel novembre 2017, Trump ha denunciato l’orrore della vita nel paese asiatico e la crudeltà del suo dittatore.
Già nell’aprile 2018, tuttavia, il tema dei diritti umani in Corea del nord è stato eliminato dai discorsi dei principali rappresentanti del governo americano in vista del summit di Singapore, così come in occasione dell’incontro tra Trump e Kim Jong-un nella zona demilitarizzata coreana (2019), costituendo la causa del licenziamento del consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton.
Biden sul crinale
È ancora presto per tirare le somme sulla risposta dell’amministrazione Biden al dilemma della democrazia. Per quanto visto negli ultimi due anni, le sue politiche non sembrano discostarsi significativamente dal trend dell’ultimo decennio. L’amministrazione Biden, d’altronde, si muove in un ambiente internazionale altrettanto minaccioso, se non più minaccioso, di quello con cui si sono confrontate le amministrazioni Obama e Trump.
Il ritiro dall’Afghanistan, d’altronde, non è avvenuto out of the blue, se non per gli osservatori distratti. Anche il nuovo corso alla Casa bianca ha preferito sacrificare un obiettivo di lungo termine, la democratizzazione del paese, in nome di uno di breve termine, il risparmio di risorse e la possibilità di ricollocarle in quadranti ritenuti più importanti per la difesa dell’ordine liberale. Vale la pena ricordare, peraltro, come per giustificare questa controversa scelta Biden abbia negato che la democratizzazione del paese fosse mai stata tra gli obiettivi della missione avviata nel 2001.
Anche nel rapporto con la Russia il presidente è stato meno coerente di quanto ci si potrebbe aspettare. Dopo aver partecipato al summit Nato del 14 giugno 2021, in cui gli alleati avevano parlato dell’impossibilità di tornare a relazioni ispirate al business as usual fin quando Mosca non fosse tornata a rispettare il diritto internazionale, già il 16 giugno Biden incontrava Putin a Ginevra, per discutere di come evitare escalation improvvise e provare a rimuovere i vincoli strutturali al dialogo.
Dopo l’aggressione russa del 24 febbraio, inoltre, Washington è stata in prima fila a fianco a Kiev. Ma senza avere in mente il regime change a Mosca, obiettivo che Washington non ha mai perseguito nei confronti di una grande potenza a causa dei contorni imprevedibili che potrebbe generare.
Come spiegato dal segretario alla Difesa Lloyd Austin, infatti, lo scopo che gli Stati Uniti perseguono in Ucraina è quello di «indebolire la Russia al punto che questa non sia più capace di invadere i suoi vicini». Più di recente anche il registro di Biden nei confronti di Putin – precedentemente definito «killer» e «macellaio» – è cambiato, probabilmente per tenere aperta l’opzione dell’apertura di un tavolo di trattative. In un’intervista alla Cnn, infatti, il presidente ha parlato del leader del Cremlino come di «un attore razionale che ha sbagliato i calcoli in modo significativo».
Rispetto agli anni di Trump, tuttavia, il nuovo presidente ha segnato una forte discontinuità per quanto riguarda il rilancio della narrativa liberale. È vero che la rappresentazione della democrazia contenuta nella Nss 2022 non è quella di un “bene” da promuovere attivamente su scala globale, ma da salvaguardare negli Stati Uniti e nei paesi alleati in Europa e nell’Indo-Pacifico.
Tuttavia, l’amministrazione Biden sembra attribuirle una sorta di capacità disvelante. La sua presenza o meno in un paese, infatti, le permetterebbe di distinguere tra “veri amici”, interessati «a combattere le minacce contro le società libere» e a preservare quelle “condizioni di forza” (primato economico-militare e controllo degli “spazi comuni”) che ancora favoriscono il mondo occidentale, “avversari”, attivamente impegnati a destabilizzare l’ordine internazionale rule-based, e “falsi amici”, pronti a saltare sul carro delle potenze emergenti nel momento in cui la sorte volgesse in loro favore.
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