Il disimpegno voluto da Trump e perfezionato da Biden ha ridisegnato le aree di influenza sulle cartine geografiche. Uno shock che ancora oggi produce i suoi effetti
Tre anni fa, erragosto del 2021, il giorno del disonore dell'occidente. La fuga da Kabul come la fuga da Saigon del 29 aprile 1975, le promesse tradite, le donne lasciate in balìa dell'oscurantismo jihadista, chi aveva collaborato con la coalizione internazionale praticamente consegnato ai macellai in nome della religione.
L’inizio di una nuova er
aCome in Iraq, falliva, vent'anni dopo, l'occupazione seguita all'attacco delle Torri Gemelle, l'idea presuntuosa dell'esportazione della democrazia. Joe Biden, l'inquilino della Casa Bianca, bersagliato dalle critiche per le modalità di un ritiro grottesco oltre che cruento.
Le responsabilità palesi andavano almeno condivise con il suo predecessore Donald Trump perché fu la sua amministrazione a trattare a Doha con i talebani nel 2020 l'uscita dei soldati dall'Afghanistan, nel pragmatismo contabile di un'America stanca di saldare i conti di un conflitto infinito.
Kabul chiarì il perimetro del nuovo dualismo del mondo, diviso tra democrazie e dittature, prontissime queste ultime a riconoscere il nuovo regime o almeno a stringere amicizia con i tagliagole coranici.
Pose le premesse per un ridisegno sulle carte geografiche delle aree di influenza. E non era la fuga in sé ma quanto rappresentava in termini di potenza, quanto le sue radici lunghe avrebbero mutato i rapporti tra gli Stati. Sanciva insomma, Kabul, l'inizio di un nuova era.
Una corrente di pensiero vuole che la debolezza mostrata dagli Stati Uniti nel cuore dell'Asia sia stata la spinta per Vladimir Putin ad invadere l'Ucraina. E siccome tutto si tiene le nuove amicizie conquistate dall'asse sciita in Medioriente avrebbero convinto Hamas che era tempo di lanciare la sfida ad Israele, il fatidico 7 ottobre scorso, con tutto quello che ne è seguito.
Sia o meno vero, il caos geopolitico è stato comunque il terreno fertile per rafforzare gli appetiti di chi cercava una rivincita, una volta che Washington non veniva più percepita come il leone che regola l'ordine della giungla, definizione del guru neo-conservatore Robert Kagan.
Un vecchio assioma, peraltro non così veritiero, vuole che siano i democratici a iniziare le guerre e i repubblicani a chiuderle. Il repubblicano candidato alla presidenza è lo stesso Donald Trump che dichiarò di fatto conclusa la partita con i talebani lasciando senza remore che facessero strame del loro Paese.
In nome della solita tentazione isolazionista della prima potenza mondiale, spesso poi costretta a tornare sui suoi passi perché non si abbandona facilmente un ruolo tanto delicato.
L’abbandono dell’Europa
Dal precedente e dalle sue stesse dichiarazioni di campagna elettorale si può facilmente evincere quale sarà il suo atteggiamento nel caso di vittoria a novembre. Uno stop immediato agli aiuti all'Ucraina e un'intesa cordiale con la Russia, nel riconoscimento reciproco di una statura superiore rispetto agli altri Paesi del mondo: una pace purchessia invece di una pace giusta.
Un sostegno ferreo a Israele ma solo perché sa cavarsela da solo senza grandi aiuti militari da oltreoceano ed è «decisivo per gli interessi statunitensi». Sarà anche esortato lo Stato ebraico a rinverdire gli Accordi di Abramo comprendendo l'Arabia Saudita e in generale l'universo sunnita in nome di un virtuoso circuito di business nell'area, l'economia come mezzo per arrivare a calmare i bollenti spiriti bellicisti.
Una forte rivalità commerciale con la Cina e un abbandono della debole Europa se non contribuirà in modo più sostanzioso al bilancio della Nato. Altro non c'è da aspettarsi da un imprenditore che conosce solo il linguaggio dei soldi.
L'alternativa democratica è Kamala Harris, attuale vicepresidente di Joe Biden e naturalmente continuatrice della sua politica che contempla la difesa di alcuni valori imprescindibili della democrazia e non ha come unico Moloch il denaro.
Scottato e forse addirittura choccato da Kabul, Joe Biden non esitò a schierarsi con Kiev dopo l'invasione del febbraio 2022, a difesa dunque di un aggredito continuamente foraggiato di aiuti in dollari e armi.
In Medioriente ha cercato di limitare gli effetti nefasti della folle invasione di Gaza, così come l'ha voluta Netanyahu, che è costata almeno 40 mila morti palestinesi e rilanciato l'idea, cara anche a Kamala, della soluzione dei due Stati, l'unica possibile sul tappeto e invero ignorata da Trump.
L'anniversario di Kabul torna per ricordarci gli errori commessi. E che non è indifferente chi siederà da gennaio alla Casa Bianca. Se l'uno o l'altra.
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