Un tempo i filoisraeliani erano una componente dominante dei repubblicani. Ma anche tra i consiglieri del presidente Biden trovano posto i fan di Netanyahu
Ogni qualvolta l’Iran attacca lo stato d’Israele, la politica estera americana si accorge di una piccola ma significativa fazione un tempo molto influente, quella dei cosiddetti “falchi”, molto attiva nel chiedere un’azione decisiva nei confronti dell’Iran degli Ayatollah, un’azione decisiva affinché il regime venga abbattuto.
Un tempo questi ideologi erano sovrapponibili al partito repubblicano, soprattutto durante la presidenza di George W. Bush. Dopo l’intervento in Iraq nel 2003, sembrava quasi una logica conseguenza chiudere i conti anche con l’altro componente di quello che l’allora presidente chiamava l’Asse del Male.
I repubblicani
Oggi invece che alla guida dei repubblicani c’è Donald Trump e la sua ideologia isolazionista ha preso piede, anche i repubblicani hanno assunto una maggior cautela nell’uso della forza militare. Una posizione riassumibile in quanto affermato dal candidato vicepresidente J.D. Vance: lasciamo fare a Israele il suo lavoro. In parole povere: nessun ostacolo alle operazioni militari di Tel Aviv e tutto il sostegno possibile, ma nulla più.
In un editoriale sul New York Times pubblicato il primo ottobre, il commentatore conservatore Bret Stephens, ex direttore del Jerusalem Post, ha affermato che l’escalation militare con il pieno coinvolgimento degli Stati Uniti sia l’opzione preferibile, perché l’attento approccio diplomatico di questi anni non ha prodotto frutti, anzi, ha reso più tracotanti le azioni del regime di Teheran. Anche l’ex ambasciatore all’Onu John Bolton ha echeggiato un’idea simile in una sua recente intervista sul canale televisivo trumpiano Newsmax, rimarcando che il gelo nelle relazioni della Casa Bianca con Israele non ha aiutato lo stato ebraico a raggiungere i suoi obiettivi, che in fin dei conti sono gli stessi degli Stati Uniti.
Il solitamente taciturno Mitch McConnell, leader uscente dei repubblicani al Senato, ha diramato un comunicato dicendo che quanto fatto finora dall’amministrazione Biden «non è abbastanza». Serve un’azione più concreta come «rifornire di munizioni» l’alleato e di far pagare «severe conseguenze» all’Iran e ai suoi alleati. Anche uno dei più stretti alleati di Donald Trump, il senatore del South Carolina Lindsey Graham, ha chiesto un’azione concreta, indicandola in una nota: «Colpire le raffinerie di petrolio» in coordinamento con Israele.
Anche il senatore Tom Cotton dell’Arkansas lo scorso 26 settembre ha scritto una lettera in cui chiede insieme a 15 senatori e 22 deputati un maggiore coinvolgimento americano nel conflitto tra Israele e Iran. Tra i firmatari, altri trumpiani di ferro come il texano Ted Cruz e Mike Braun dell’Indiana. L’ala neoisolazionista, capeggiata dal senatore Rand Paul del Kentucky, tace. Con ciò vuol dire che si sta tornando all’antico mood bushiano? Probabilmente no, e la cauta risposta di J.D. Vance al dibattito del primo ottobre lo testimonia.
Il mondo dem
Però bisogna ricordare che la Casa Bianca di Joe Biden è tutt’altro che fredda nei confronti di queste azioni dello stato ebraico che hanno portato, tra le altre cose, alla disarticolazione del movimento sciita libanese di Hezbollah.
Ci sono in particolare due consiglieri a sostenere tacitamente le mosse del governo di Benjamin Netanyahu: Amos Hochstein e Brett McGurk, coordinatore delle policy sul Medio Oriente e uno degli advisor più ascoltati dal presidente.
La sensazione, dunque, è che Biden direttamente non possa esprimersi in termini più diretti per timore di danneggiare le chance elettorali della sua vice Kamala Harris, che dipendono anche dal sostegno che le darà l’ala sinistra, molto vicina alle ragioni dei palestinesi e critica dei bombardamenti israeliani contro i civili. Una situazione dove però a uscirne vincitore è proprio il premier israeliano, in teoria disprezzato dai dem e visto con diffidenza anche dallo stesso Trump, che però gode di appoggi cruciali in entrambi gli schieramenti. E di sicuro i fautori della diplomazia nei confronti degli Ayatollah, tra cui l’ex advisor di Barack Obama Ben Rhoades oggi godono di ben poco ascolto rispetto a qualche mese fa.
Dal punto di vista squisitamente elettorale, però, difficilmente i repubblicani riusciranno a capitalizzare il sostegno senza condizioni degli ultimi mesi, dato che ancora nel 2020 la maggior parte degli ebrei americani ha scelto i democratici con la percentuale notevole del 77 per cento secondo alcune rilevazioni.
Gli scettici
Però entrambi gli schieramenti hanno al loro interno una parte che vorrebbe staccarsi dai destini di Tel Aviv: la già citata sinistra radicale dei dem ma anche un radicale neoisolazionismo nei repubblicani, guidato dall’ex conduttore di Fox News Tucker Carlson, che nelle ultime uscite sulla piattaforma X, l’ex Twitter posseduto dal magnate Elon Musk, ha assunto una posizione sempre meno velatamente antisemita e qualche mese fa aveva definito «fottuti lunatici» i fautori di un attacco su vasta scala all’Iran.
Un sottile equilibrio che si può rompere in qualsiasi momento e può determinare l’andamento del voto di novembre, che però per Tel Aviv appare di minor interesse rispetto a qualche mese fa. Certo, Donald Trump è sempre un’opzione preferibile per Netanyahu, ma neppure un’amministrazione Harris sarebbe una totale iattura per il suo governo, come dimostra il sostegno espresso dal suo vice Tim Walz. E il cessate il fuoco in Medio Oriente appare sempre più lontano.
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