L’estensione dell’immunità, le nomine dei giudici, i lealisti al Congresso, i burocrati controllati. Il presidente eletto ha un piano per indebolire i contrappesi democratici e muoversi liberamente
Il presidente eletto Donald Trump si avvia verso la Casa Bianca con il «mandato potente e senza precedenti» consegnato da una composita coalizione elettorale fatta anche di minoranze etniche, donne, comunità urbane. Una legittimazione elettorale di questo genere, benedetta da un’ampia maggioranza nel voto popolare e probabilmente dal controllo dell’intero Congresso, rischia effetti esplosivi a contatto con una personalità autoritaria.
Con lo slancio del voto, Trump ha ora l’opportunità di erodere le salvaguardie democratiche e alleggerire i contrappesi di potere per muoversi senza argini una volta insediato. Lo scopo è rimuovere ogni freno che possa limitare la sua azione. Nel primo mandato il consigliere Steve Bannon blaterava di «decostruire lo stato amministrativo» e concentrare più potere possibile nelle mani del presidente, e ora Trump ha finalmente in mano leve vantaggiose per liberarsi di alcune zavorre del sistema democratico.
Lo ha denunciato anche l’ex deputato repubblicano Adam Kinzinger, che si è suicidato politicamente quando si è messo contro Trump dopo l’assalto a Capitol Hill ed è finito vittima delle purghe trumpiane. «Il popolo americano ha votato sostanzialmente per dare al presidente un potere senza controlli», ha detto, specificando che «tutti sapevano quello che stavano facendo quando hanno votato».
Immunità
Innanzitutto, Trump è il primo presidente della storia che gode di una sostanziale immunità per gli atti compiuti da presidente. Lo ha decretato la Corte suprema quando ha risolto in suo favore la battaglia legale attorno al suo tentativo di interferire, anche sobillando la folla inferocita, con la procedura di certificazione del voto quattro anni fa.
Si tratta di un’immunità limitata, ma con ogni probabilità i suoi legali avranno buon gioco a invocare una sua estensione in caso di necessità. Senza contare che la sentenza è stata scritta da una Corte a supermaggioranza conservatrice, con tre giudici nominati proprio da Trump, il quale è sostenuto da una formidabile macchina per selezionare giudici federali di nomina presidenziale, che hanno solo bisogno di essere confermati dal Senato a maggioranza repubblicana.
Nel frattempo, tanto per consolidare il senso di impunità, il procuratore speciale Jack Smith ha fatto intendere che le indagini del dipartimento di Giustizia verranno sospese, il processo sulle elezioni in Georgia si fermerà, la sentenza per avere comprato il silenzio di una ex pornostar probabilmente non verrà mai eseguita.
Il neoeletto presidente ha detto che scherzava quando diceva che sarebbe diventato un «dittatore», ma nei momenti più caldi della campagna elettorale ha annunciato la «più grande operazione di deportazione nella storia americana» e ha evocato l’idea di usare l’esercito conto il «nemico interno», una categoria classica nella retorica della paranoia autoritaria. Con molti dei “nemici interni” nel partito ha già fatto i conti in passato.
I repubblicani che hanno votato per le due procedure di impeachment sono stati prima esiliati e poi massacrati alle primarie da candidati di specchiata fede trumpiana, uscendo dal Congresso. Queste modalità di affrontare lo scontro politico hanno cementato in lui l’idea che le istituzioni di rappresentanza siano strumenti da usare per consolidare la lealtà alla Casa Bianca.
Congresso
La deputata trumpiana Marjorie Taylor Greene, che ha molta influenza al Congresso, ha già detto chiaramente che non ci sarà spazio per il dissenso dentro al partito: «Non permetterò contestazioni, e non le permetterà nemmeno il popolo americano, che ci ha dato questa incredibile opportunità di salvare il paese».
La missione di salvare il paese giustifica qualunque mezzo. Dunque, soltanto una maggioranza democratica alla Camera – improbabile a questo punto – potrebbe impedire che il potere legislativo diventi di fatto una prosecuzione del volere del presidente. Il quale del resto aveva già espresso la concezione dei limiti delle sue funzioni quando era in carica, brandendo l’Articolo II della Costituzione: «Ho l’Articolo II, perciò ho il diritto di fare tutto ciò che voglio come presidente», aveva spiegato, senza ricordare che l’articolo in questione elenca i doveri del presidente, non gli garantisce immunità totale.
Burocrazia
I critici di Trump si sono fissati sul famoso Project 2025, un lungo e minaccioso documento programmatico compilato dalla Heritage Foundation – un think tank di destra – che il presidente ha disconosciuto come fonte ispiratrice. Per trovare un vero “playbook” trumpiano bisogna invece guardare il lavoro dell’America First Policy Institute, un pensatoio fondato nel 2020 con i finanziamenti di tre milionari texani alleati di Trump.
L’istituto ha preparato un’agenda per la transizione dell’amministrazione e ha vergato le bozze di oltre trecento ordini esecutivi per l’inizio del mandato del presidente. Fra le varie proposte convenzionali – togliere i finanziamenti a Planned Parenthood, estendere il diritto a portare armi, uscire dagli accordi di Parigi ecc. – ce n’è una che ha un che di rivoluzionario ed eversivo: cambiare lo status degli impiegati della burocrazia federale per trasformarli in dipendenti “at will”, un po’ come se fossero alle dipendenze di un capo aziendale, il presidente.
«Le agenzie dovrebbero essere libere di rimuovere dipendenti per qualunque ragione, senza la possibilità di fare appello», dice il documento. In pratica, significherebbe trasformare i dipendenti statali in cortigiani presidenziali, esposti allo spoils system delle amministrazioni e ai capricci del capo, senza protezioni che tutelino il loro ruolo di servitori dello stato, non del governo. È questa la nuova versione della «decostruzione dello stato amministrativo».
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