Mio padre sarà come Lincoln, come Jefferson….uno dei più grandi presidenti di tutti i tempi». Le parole pronunciate a caldo da Eric Trump, pochi minuti dopo l’attentato a suo padre, non lasciano spazio ad equivoci. Donald Trump non è solo un padre di famiglia e un nonno premuroso, ma uno statista chiamato a rendere di nuovo grande l’America. E il folle gesto del ventenne Thomas Mattew Crooks lo incorona come martire della nazione. Dai colpi del fucile che lo hanno sfiorato, il candidato repubblicano esce doppiamente vincitore: il suo volto insanguinato ma incrollabile consacra i pilastri di una narrazione ormai di discreta fortuna. Il leader carismatico è allo stesso tempo una vittima e un combattente coraggioso e virile, deciso a chiamare alla lotta il suo popolo, mostrando al mondo intero il sangue del capo, colpito ma pronto a rialzarsi per mobilitare la folla, con tanto di pugno alzato, mentre gli agenti proteggono il suo corpo. Dietro di lui, sventola la bandiera degli Stati Uniti, antitesi plastica della fragilità di una democrazia liberal ormai in crisi, che nell’anziano e confuso Biden, sembra aver trovato la sua roccaforte.

Ora, l’attentato al super candidato repubblicano ha provocato uno choc ma se adottiamo un’ottica di lungo periodo vale la pena soffermarsi su un dato. Gli atti di terrorismo e di violenza politica che attraversano gli Stati Uniti non sono una novità, ormai da molti anni. Sparatorie nelle strade, attentati nelle scuole, deputati che hanno rischiato al vita a suon di colpi d’arma da fuoco, come accaduto nel 2011 a Gabby Giffords, deputata democratica dell’Arizona lesa irrimediabilmente da gravi danni celebrali. Che sia in campagna elettorale o nella normale convivenza parlamentare, il modello è sempre lo stesso: la politica non è un legittimo scontro fra avversari ma lotta all’ultimo sangue tra nemici da annientare, da eliminare persino fisicamente, a dispetto di tutto ciò che la democrazia americana rappresenta.

Una prova muscolare peraltro inutile se si pensa che dall’11 settembre 2001 la nazione invincibile non esiste più. Della superpotenza mai invasa da uno straniero rimase all’epoca solo il volto spaesato di George W. Bush, raggiunto dalla notizia degli aerei schiantati sulle Torri gemelle di New York, mentre era in visita in una scuola elementare. Il presidente non godeva allora di molta popolarità ma l’appello alla guerra santa dell’Occidente contro il terrorismo islamico fu la chiave per risollevare le sorti di un’America che scopriva di essere un paese vulnerabile. Un brusco risveglio alla realtà per una nazione gettata di colpo in una crisi profonda, incapace di ricostruire un vecchio mondo di certezze andato in frantumi, se non chiamando in causa la fede. Perché la verità è che l’unica e sola potenza economica (dalle raffinate strategie militari), quella capace di imporre il culto del capitalismo con tutti i suoi miti, l’unico grande impero repubblicano, non ce la fa proprio a liberarsi dalla gabbia di una religione civile che la glorifica come unica nazione protetta da Dio, nella sua sacra missione di esportare la democrazia nel mondo. Parlando il giorno dopo l’attentato alla tv, il reverendo Jerry Falwell, leader evangelico, disse che l’attacco degli infedeli seguaci di Satana alla terra della libertà era il segno inconfutabile di una punizione divina, scagliata contro gli americani abortisti, i gay e in genere i seguaci del femminismo. E potrà sembrare un discorso bizzarro per un paese che ha fatto del pragmatismo il suo tratto distintivo, ma in America la politica è fortemente condizionata dai suoi aspetti sacri, rituali, persino religiosi.

Del resto chi può negare che sulla banconota da un dollaro dietro la faccia di George Washington, primo presidente degli Stati Uniti, campeggi una scritta che è una dichiarazione di fede? “In God we trust” (noi confidiamo in Dio), una preghiera laica imposta come motto nazionale nel 1956, con ai lati il sigillo degli Stati Uniti, con tanto di piramide e occhio della provvidenza, e sopra a tutto la data della Dichiarazione d’indipendenza, 4 luglio 1776. È la stessa dichiarazione di fede che campeggia in bella vista nella sala del Congresso degli Stati Uniti (proprio quella presa d’assalto dai sostenitori di Trump il 6 gennaio 2021) e se ci pensiamo bene, in nessun altro stato del mondo nei luoghi e nelle cerimonie pubbliche, la politica si ostina a rivendicare la propria fede in modo tanto evidente. Non è un caso che tutti i presidenti americani chiudano i loro discorsi inaugurali con la frase “So help me God” (che Dio mi aiuti), giurando sulla Bibbia, pur in una società multireligiosa e multietnica.

Il Dio d’America che tutti i cittadini, a partire dalle scuole elementari, devono osannare e invocare a protezione del sacro suolo nazionale, si chiama giuramento di fedeltà alla bandiera e alla Repubblica. Qualcosa però ci dice che per tener saldo quel Pledge of Allegiance recitato ogni mattina dagli studenti prima di iniziare le lezioni, non basterà invocare punizioni esemplari contro gli opposti estremismi in lotta fra di loro.

© Riproduzione riservata