Un massacro davanti al supermercato mette in luce il razzismo strutturale ancora radicato nel paese, che però non ha il suo Black Lives Matter
- João Alberto Silveira Reita è stato massacrato da due guardie del Carrefour di Porto Alegre. Un dissapore alla cassa al momento di pagare, poi la sua reazione dura con gli uomini della sicurezza chiamati a intervenire. Una volta fuori, l'uomo è stato ucciso.
- In Brasile muoiono ammazzate ogni anno 50mila persone, e un buon 75 per cento sono uomini e donne di pelle scura.
- Alla negazione del razzismo codificato in Brasile i difensori dei diritti umani rispondono con una espressione speculare: razzismo strutturale.
Novanta secondi di cazzotti e calci in faccia, il sangue che schizza ovunque. Poi il video si interrompe. Il referto della polizia che parla di “morte per asfissia” sottintende il finale. Un ginocchio sul collo, come a Minneapolis, o un piede, o due piedi. Il Brasile del razzismo negato ha avuto il suo George Floyd e una storia se è possibile anche peggiore di quella che ha fatto esplodere il Black Lives Matter negli Usa.
L'uomo in questione si chiama João Alberto Silveira Reita, era un operaio tuttofare di 40 anni, quattro figli, una moglie e un gatto. Molti tatuaggi. L'omicidio all'uscita di un Carrefour di Porto Alegre, la città del sud del Brasile bianco e progressista, scarsa tradizione di tensioni razziali: qui per qualche anno all'inizio del secolo sfilò l'elite no global nell'allora mediatico Forum sociale. Invece “Nego Beto”, così lo chiamavano gli amici, vi ha trovato la morte. Un dissapore alla cassa al momento di pagare, poi la sua reazione dura con gli uomini della sicurezza chiamati a intervenire. Una volta fuori, l'uomo è stato massacrato dai due gorilla, la moglie che urlava tenuta distante, e la solerte funzionaria del super alla fine riesce a far spegnere i telefonini che filmano.
Molte coincidenze nei fatti, e in quel che c'è dietro. Se hai la pelle nera, e finisci in qualche pasticcio, che sia negli Stati Uniti o in Brasile, la possibilità che tu non ne esca vivo è molto più alta. La cosa ha un solo nome: razzismo. O secondo l'ormai celebre slogan, storie di vite che contano meno di altre. La ricostruzione degli eventi, a Minneapolis come a Porto Alegre, importa poco e in entrambi i casi “eccesso di reazione” è un eufemismo. Peggio in Brasile, perché la violenza che è stata inflitta era anche “privata”, due energumeni della ditta di security incaricata dalla Carrefour. La quale, conscia del danno planetario di immagine, ha rassicurato che farà di tutto affinché non succeda più, che darà soldi e assistenza eccetera. Ma intanto è partita una campagna per boicottare la catena francese, manifestazioni in tutte le città e nel noto marchio che ricorda il drapeau tricolore il rosso è diventato sangue che cola.
Nego Beto, negro Alberto per tutti. In Brasile “negro” è parola legittima, neguinha puoi anche chiamare tua moglie o una zia. João Alberto era grande e grosso, quindi ci sta anche “negão”, negrone. Se il diavolo si nasconde nei dettagli eccone uno che ci porta dritti all'inferno del razzismo brasiliano. «In Brasile il razzismo non esiste», ha dichiarato dopo l'accaduto il vicepresidente della Repubblica, Hamilton Mourão, un militare di destra non nuovo a queste uscite. Peggio, come sempre, Jair Bolsonaro: smettiamola di importare mode che vengono da fuori, ha detto il presidente. Loro due, e tanti altri oggi al potere in Brasile, aggiungerebbero l'esempio della “neguinha” per rafforzare la loro tesi: da noi è diverso, non contaminate la nostra armonia etnica.
Intanto, per cominciare, né Bolsonaro né Mourão hanno speso una parola per João Alberto. O per rispondere all'ondata di indignazione nazionale per l'accaduto. Cinicamente possiamo dire che se lo facessero tutte le volte, non avrebbero tempo per occuparsi d'altro. In Brasile muoiono ammazzate ogni anno 50mila persone, e un buon 75 per cento sono uomini e donne di pelle scura. A uccidere sono la polizia, i narcotrafficanti, le milizie paramilitari, i banditi comuni, i mariti. Si muore molto, ma a scavare nelle statistiche in modo assai selettivo.
Dov'è il razzismo in un paese che ha tutte le sfumature possibili della pelle? Dove gli idoli nazionali possono essere Pelé e Gilberto Gil ma anche la bionda Gisele Bundchen, nata proprio qui, a due passi da dov'è morto Nego Beto. L'equivoco è vivo, assai diffuso fuori e dentro il Brasile e vi ci sguazza il bolsonarismo al potere (ecco, è il terzo fronte del negazionismo dopo il Covid-19 e l'Amazzonia, tutto quello che dite sono balle). Si fonda sul fatto che la separazione tra razze non è mai stata codificata, né sono esistite norme di apartheid. Bagni separati come in Alabama o squadre bianche di atletica come in Sudafrica. Al contrario, da molti anni, le leggi contro il razzismo sono impeccabili e dure. La stragrande maggioranza dei giudici non perdona chi le viola. Ma è sufficiente? Elena da Silva, collaboratrice domestica di Rio, la mette così: «Da quando sono nata mi ripetono che sono uguale ai bianchi. Ma sono cresciuta sapendo che noi le botte le prendiamo più forte. Come quel negão del supermercato, ne hai sentito parlare?». Come gli ascensori dove una targhetta avverte che è vietata ogni forma di discriminazione, perché una volta la servitù poteva usare solo quello di servizio. O la graduale scomparsa dell'architettura razzista: se in Italia le ristrutturazioni edilizie cancellano i corridoi e fondono salotti e cucine, così a Rio e San Paolo scompaiono finalmente le infami stanzette delle cameriere. Loculi senza finestre, tra la cucina e la lavanderia, dove “servette” nere passavano sudando le poche ore di riposo. E questo non nell'Ottocento, ma fino a pochi anni fa.
Alla negazione del razzismo codificato in Brasile i difensori dei diritti umani rispondono con una espressione speculare: razzismo strutturale. Quello che è tanto imbottito nella società e nelle differenze sociali che si preferisce non vederlo. Grandi pensatori (quasi tutti non reazionari, tra l'altro) hanno trascinato concetti giustificativi fino ai giorni nostri. “Democrazia razziale”, definiva il suo paese il sociologo Gilberto Freyre. Ne attribuiva la causa alla vita in comune, nelle fazendas agricole, tra padroni e servi, o ancor prima schiavi. E alla promiscuità sessuale, sempre tollerata. Da cui l'idea di “cordialità” di fondo nelle relazioni, secondo la definizione dello storico Sergio Buarque de Hollanda (padre del cantautore Chico). Infatti tutti i brasiliani si chiamano solo con il nome di battesimo, e tra bianchi e neri è tutto un giro di pacche sulle spalle e giri di birre al bar. Sono idee non certo prive di fondamento, ma troppo spesso usate come scusa per negare l'evidenza. Il nero le piglia di più, allora e adesso.
Per coincidenza venerdì 20, poche ore dopo l'assassinio di Nego Beto, era festa in Brasile, il giorno della “coscienza nera”. Festività nazionale dal 2003. Si ricorda il sacrificio di Zumbi dos Palmares, un eroe del '600 che tentò una rivolta degli schiavi. Da qualche anno anche in Brasile le quote nelle università stanno cercando di riequilibrare un divario gigantesco, e alcuni numeri sulla partecipazione dei neri alla vita pubblica sono incoraggianti, come nelle recenti elezioni legislative. Meglio ancora è quel che salta all'occhio in strada, la fine di regole infelici di camuffamento razziale su abbigliamento e pettinatura. Oggi sempre più donne esibiscono fiere i propri capelli crespi invece che distruggerli chimicamente per farli diventare lisci. Piccoli segnali di cambiamenti nel comportamento in un paese che invece non ha tradizione di lotte popolari di massa. Per Nego Beto è sì volata qualche pietra sui vetri dei Carrefour, ma tutto ancora funziona affinché la sua storia si possa ripetere in qualunque momento.
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