Negli ultimi nove mesi i prezzi degli alimenti che si trovano a Gaza hanno raggiunto cifre folli. Gli aiuti umanitari non bastano più. Ed è nato un mercato nero parallelo per tirare avanti
A Gaza ci sono due guerre in corso. Una è quella delle bombe, dei missili e dei colpi di artiglieria pesante: ha causato 38 mila morti, ma potrebbero essere 186mila secondo un nuovo studio scientifico di The Lancet.
L’altra è quella della sopravvivenza, della ricerca costante di cibo, un posto in ospedale, un tetto sopra la testa. Quest’ultima, da tempo, preoccupa la comunità internazionale che ha lanciato nei mesi scorsi costanti allarmi sul rischio di malnutrizione per circa due milioni di persone che vivono ancora a Gaza.
Lo scorso 9 luglio le Nazioni unite hanno affermato che la carestia è oramai diffusa nella Striscia visto il recente aumento dei decessi tra i minori. Il più piccolo, Fayez Ataya, aveva solo sei mesi ed è uno dei 34 morti per malnutrizione registrati ufficialmente.
Nella Striscia avere del cibo non è facile, e anche una volta trovato, il prezzo da pagare per non morire di fame è alto. I generi alimentari entrano principalmente con gli aiuti umanitari internazionali nonostante le reticenze e i blocchi imposti dal governo israeliano.
Quando vengono consegnati alla popolazione ci si ammassa per prenderli, creando calche pericolose. I pacchi inviati dalla comunità internazionale sono composti per lo più da farina, biscotti proteici, humus, fave e fagioli in scatola, ma non tutti hanno la fortuna di tornare a casa con un carico tra le mani.
I negozi alimentari accessibili sono sempre di meno e quelli aperti hanno gran parte degli scaffali vuoti. I prezzi, invece, sono saliti alle stelle. E in nove mesi, i pochi risparmi di una vita sono finiti, per la stragrande maggioranza della popolazione.
Il prezzo da pagare
«Al sud c’è più cibo, ma non per tutti», racconta Majed un ragazzo di 25 anni che negli ultimi mesi si è spostato in più parti della Striscia insieme alla sua famiglia per evitare i missili israeliani.
«Mangio principalmente scatole di fagioli o di carne quando sono più fortunato», racconta. «Al supermercato non trovi niente e il costo è altissimo soprattutto per carne, pollo, verdure e frutta». Nei mesi scorsi la ong Christian Aid ha condotto una ricerca per capire come la riduzione dell’offerta dei generi alimentari abbia impattato sui gazawi.
Un sacco di farina di 25 chili, ad esempio, al nord può arrivare a costare anche 324 sterline mentre dalle parti di Rafah circa 15 sterline. Le cipolle costano cinquanta volte di più rispetto al periodo precedente al 7 ottobre.
Un chilo di zucchero arriva fino a 17 sterline, ventisei volte tanto. Comprare dei limoni, invece, costava 35 volte di meno. Se si è fortunati 250 grammi di caffè si possono acquistare a 15 euro.
«Nei primi mesi di guerra per giorni ho mangiato solo erbe e foglie, non avevamo nient’altro. Sono stato male con forti dolori di stomaco», racconta Majed. E i vizi non possono essere saziati: una singola sigaretta si vende a peso d’oro (circa 20 euro).
Il “cibo dei poveri” come i falafel e il pane, rischiano di diventare pasti per ricchi. Ma a Gaza ricchi non ce n’erano, e non ce ne sono. Decine di ong ed enti benefici distribuiscono pacchi alimentari, provando a colmare i vuoti.
È nato un mercato nero parallelo in cui chiunque prova a comprare e rivendere ciò che può essere utile alla vita quotidiana. C’è chi racimola qualche spicciolo trasportando persone o merci a bordo di carretti trainati da asini scheletrici. I più giovani che hanno conoscenze tecnologiche vendono schede telefoniche digitali che servono a bypassare i blackout della rete gestita da Israele e continuare a raccontare cosa accade nella Striscia.
Condizioni sanitarie
«Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire», ha detto Jean Paul Sartre. E a Gaza i poveri non muoiono solo di carestia e malnutrizione ma anche per le pessime condizioni igienico sanitarie.
I cinque impianti di trattamento delle acque reflue di Gaza sono stati chiusi e come scrive l’Onu «i liquami contaminano spiagge, acque costiere, suolo e acqua dolce con una serie di agenti patogeni, nutrienti, microplastiche e sostanze chimiche pericolose». Come se non bastasse, cinque strutture di gestione dei rifiuti solidi su sei sono danneggiate.
«Abbiamo bisogno di materiali per la pulizia, sapone e fazzoletti. Sono tre mesi che non uso lo shampoo», dice Majed inviando via Whatsapp una foto di un rotolo di carta igienica. «L’ho pagato cinque shekel, 1 euro e 30». Per i bambini i pannolini sono introvabili.
Gli assorbenti sono assenti e ci si arrangia come si può: strappi di indumenti, di tende o della prima cosa che può essere un minimo funzionale per gestire il ciclo mestruale. Sono circa 700mila le donne che secondo le Nazioni unite versano in queste condizioni.
Soltanto due mesi fa circolavano online i video di un carico di aiuti diretto a Gaza vandalizzato dai coloni israeliani.
Secondo un’inchiesta giornalistica del Guardian sono i servizi di sicurezza israeliani a passare agli estremisti le informazioni utili per intercettare i camion diretti nella Striscia.
«Vogliono che ci combattiamo l’un l’altro. Se gli aiuti non possono arrivare, i ladri e gli sciacalli vincono, e vince anche Israele», ha detto qualche giorno fa un gazawi ai giornalisti della National public radio durante una trasmissione radio.
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