«In un certo senso la nostra situazione è pesantemente aggravata dalle guerre in Ucraina e a Gaza». A parlare è padre Biong Kwol Deng, un sacerdote di El Obeid, vicesegretario della Conferenza episcopale del Sudan e del Sud Sudan, contattato un paio di settimane fa.

La situazione in cui sta sprofondando il Sudan, stretto tra una guerra feroce che non accenna neanche lontanamente a interrompersi e l’indifferenza assoluta di una comunità internazionale che si occupa sostanzialmente solo (e con esiti decisamente discutibili) della crisi ucraina e di quella mediorientale, è drammatica.

Eppure l’inferno del Sudan dovrebbe interessarci. E non solo per motivi umanitari visto che la crisi di sfollati è di gran lunga peggiore al mondo – oltre 13 milioni di individui hanno lasciato le proprie case e di questi, circa 2,5 milioni, hanno varcato i confini e sono finiti in paesi a loro volta colpiti da gravissime emergenze umanitarie come Sud Sudan, Ciad e Libia. Ma anche perché è una bomba a orologeria geopolitica che avrà effetti deflagranti su tutto il mondo.

Il periodo pre-bellico

Il Sudan è il terzo paese più grande dell'Africa dopo Algeria e Repubblica democratica del Congo. E per posizione geografica, importanza strategica e potenziale politico, ha un grande peso in un’area vastissima dell’Africa e del Medio Oriente.

A testimonianza di ciò, si può citare il fattore attrattivo esercitato dal Sudan, fino a qualche mese fa, nei confronti di profughi provenienti dai paesi limitrofi. Nel periodo pre-bellico, caratterizzato dal 2019 in poi dalla cosiddetta Primavera sudanese (la rivoluzione pacifica che ha portato al primo esecutivo parzialmente formato da civili) e da una relativa stabilità, ne sono arrivati oltre un milione.

Una cifra enorme che aveva proiettato il paesi tra quelli più accoglienti al mondo. Se lo si guarda adesso, il Sudan sembra più simile a quello di inizio secolo, sconvolto da guerre e povertà endemiche.

«Il Sudan – ha dichiarato ai giornalisti il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante una visita a Port Sudan lo scorso 7 settembre – si trova in quella che potremmo definire una tempesta perfetta ed è avvilente che la crisi non riceva l'attenzione che merita da parte della comunità internazionale».

Guerra e carestia

A margine Ghebreyesus ha parlato di «20mila vittime» ma ci sono altre fonti, come l’Economist, che a seguito di un reportage realizzato grazie a immagini satellitari, parlano di 150mila morti. La capitale Khartoum è praticamente rasa al suolo. Si profila inoltre una carestia che potrebbe essere più letale di quella dell'Etiopia negli anni ‘80: alcuni stimano che 2,5 milioni di civili potrebbero morire entro la fine dell'anno.

I pochi aiuti umanitari che riescono ad accedere nel paese, debbono fare i conti con i saccheggi premeditati dei due gruppi belligeranti, le Forze armate sudanesi (Saf) del generale Abdel Fattah Al Burhan e le Rapid Support Forces (Rsf) di Mohamed Hamdan Dagalo (detto Hemedti). La stagione delle piogge, in pieno svolgimento, e le epidemie di colera, sembrano essere la beffa finale per una popolazione allo stremo.

Potenze esterne

Dietro alle due forze in conflitto ci sono potenze esterne che non hanno alcun interesse a interromperlo. Gli Emirati Arabi Uniti forniscono droni alle Rsf, Egitto e Iran pensano alle Saf, la Russia gioca su entrambi i campi e conta unità Wagner sul terreno.

Ma anche Arabia Saudita (sponsor dei colloqui di pace a Gedda che falliscono ripetutamente, ndr), Turchia e Qatar partecipano a vari livelli alla guerra in cerca di una loro fetta di controllo su miniere d’oro, altre risorse e influenza sull’area.

L'Occidente è totalmente fuori dalla mischia. Se questo significasse solo evitare di aggiungere attori negativi al conflitto sarebbe un bene. In realtà l’assenza totale dell’ Europa e i timidi tentativi degli Usa, comportano un abbandono definito del Sudan al suo destino, e a far finta che una simile crisi non esista, si rischia grosso.

Intanto perché il pericolo allargamento è realistico, con troppi paesi, nell’area e fuori, interessati e coinvolti. Poi perché il Sudan, con i suoi 800 chilometri circa di costa sul Mar Rosso, se, come ormai appare irreversibilmente da mesi, giungesse a una implosione e a una perpetuazione del conflitto, farebbe sentire le sue mefitiche conseguenze sul Canale di Suez, un'arteria chiave del commercio globale.

Il continente africano è ancora caratterizzato da un numero significativo di conflitti ma ciò che rende diverso il Sudan, come riporta l’Economist, è la potenzialità di diffusione del caos al di fuori del suo territorio.

Ha confini porosi con sette stati fragili, che rappresentano il 21 per cento della massa terrestre africana dove vivono circa 300 milioni di persone: l’arrivo così massiccio di profughi sta già destabilizzando un’area enorme. Sebbene chi fugge resti nella stragrande maggioranza in Africa, c’è chi prefigura un esodo massiccio verso l’Europa stile crisi siriana del 2014-2015 nei prossimi mesi: già il 60 percento delle persone nei campi di Calais, sulla sponda meridionale della Manica, sono sudanesi.

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