Cosa succede quando scoppia una guerra civile in uno dei paesi più climaticamente vulnerabili al mondo? Nel disinteresse impotente della comunità internazionale, il Sudan sta diventando un paese laboratorio della policrisi: umanitaria, alimentare, ecologica.

In Sudan le ondate di calore hanno già fatto centinaia di vittime tra i dieci milioni di sfollati interni, secondo l’Onu oltre venticinque milioni di persone stanno affrontando una grave crisi alimentare ed è cominciata la stagione delle piogge.

In un contesto del genere, per la popolazione e per i pochi operatori umanitari che ancora riescono a operare sul campo, i bollettini di allerta meteo a breve e medio termine sono uno strumento vitale, possono fare la differenza tra la vita e la morte.

Il problema è che da un anno l’Istituto meteorologico del Sudan ha smesso di operare: si trovava nell’aeroporto di Khartoum, la prima infrastruttura attaccata durante la guerra civile. In quei giorni è iniziata la diaspora dei climatologi sudanesi, che sono scappati come gli altri e si sono dovuti dividere, chi in Uganda, chi in Egitto, chi in Kenya, interrompendo il lavoro di adattamento climatico e preparazione al rischio dal paese.

Per quasi un anno, il Sudan ha di fatto navigato la tempesta climatica senza radar.

Climatologi al lavoro

La buona notizia, in questo scenario devastante, è che di recente la squadra di climatologi si è ritrovata nella situation room per i rischi climatici regionali di Nairobi, in Kenya, e ha potuto riprendere a mandare i bollettini aggiornati sulle situazioni di rischio per i rifugiati, operando come una sorta di “Radio Londra” climatica in esilio.

I tre esperti si chiamano Dalal Hamoudi, Abuelgasim Musa, Mohamed Alsheikh, sono i climatologi più importanti del paese. Nei loro percorsi di formazione c’è la geografia di tutto il mondo, hanno conseguito dottorati in modellistica, clima e computer science in Pakistan, Cina, Giappone.

Nel 2021 erano tornati a Khartoum per costruire un sistema di allerta meteo in grado di raggiungere il paese in caso eventi estremi, un salvavita climatico in tempo reale. Quando sono dovuti scappare per la guerra, i tre si sono lasciati dietro strumenti, progetti, ma anche i server con le serie di dati più lunghe d’Africa, un secolo di storia del clima.

Dopo lo scoppio della guerra civile, è stato messo insieme un intervento d’urgenza, coordinato dall’autorità meteo del Sudan insieme a con finanziamenti della cooperazione italiana, per riunirli e rimetterli in condizione di lavorare, perché un paese in crisi come il Sudan non poteva rimanere scoperto.

Ora i climatologi lavorano di nuovo insieme in Kenya, mandano i bollettini in Sudan, il tutto con un importante supporto italiano. I modelli su cui fanno le previsioni girano su server che sono a Savona, nella sede di Fondazione Cima, il centro di competenza della Protezione civile italiana, che fa questo tipo di cooperazione climatica da anni, e che in queste settimane sta anche mandando personale di supporto a Nairobi per rafforzare il progetto, in vista dell’inizio di una stagione delle piogge la cui intensità preoccupa già gli esperti.

Siccità e piogge

Come spiega Alessandro Masoero, idrologo di Fondazione Cima, «secondo i modelli, Khartoum, la fascia centrale del paese e anche la zona di Port Sudan fronteggiano una doppia emergenza, le precipitazioni anomale e le piene fluviali, in particolare del Nilo, dove arriva anche l’acqua caduta più a monte, in Kenya e Tanzania e Etiopia».

Avere dei bollettini puntuali e precisi permette agli operatori umanitari di prevedere le inondazioni e prendere decisioni in tempo reale in contesti di enorme vulnerabilità. L’anno scorso la guerra civile è partita proprio con la stagione delle piogge, che la popolazione ha dovuto affrontare senza nessuna informazione meteo. I bollettini per ora arrivano regolarmente in inglese, ma da questo mese saranno diffusi anche in arabo.

«Climaticamente il Sudan balla tra due estremi che si rincorrono», spiega Luca Ferraris, presidente di Fondazione Cima, «la siccità e le piogge che durano meno, ma sono più concentrate e portano quantità di acqua potenzialmente distruttive, soprattutto sugli sfollati e su aree urbane densamente popolate e non attrezzate al drenaggio corretto delle acque». La scorsa stagione delle piogge fu regolare, quest’anno è prevista sopra le medie, quella del 2020 fu catastrofica e fece centinaia di vittime.

Un ruolo fondamentale per questi progetti di prevenzione del rischio climatico in Sudan è quello dell’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, che ha finanziato l’iniziativa e coordina il lavoro tecnico di Fondazione Cima. Fuori da tante di queste sale controllo africane per la resilienza climatica spunta il logo della cooperazione italiana, che già prima del Piano Mattei svolgeva un ruolo chiave in questa parte dell’Africa.

Come spiega Marco Riccardo Rusconi, direttore dell’Agenzia, «ormai non si può più fare cooperazione allo sviluppo senza fare anche queste operazioni di collaborazione climatica. L’obiettivo è abbattere la mentalità organizzata a silos separati, non agire più per compartimenti stagni, ma riuscendo a coinvolgere tanti soggetti diversi, ognuno con la sua capacità operativa. Questa è da sempre la caratteristica della cooperazione italiana, molto compatibile con il nuovo scenario climatico, saper operare come un ecosistema in cui ognuno fa la sua parte: lo stato, la diplomazia, le aziende, le università e i centri di ricerca».

Non solo clima

Il ruolo dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo è fondamentale per questo trasferimento di conoscenza, accanto alla Fondazione Cima come partner tecnico, come il personaggio Wolf di Pulp Fiction che risolve problemi climatici in base all’esperienza accumulata sulla vulnerabilità italiana. È un lavoro sul clima, ma anche sulla pace e la stabilità. «Più ci si avvicina all’epicentro dei problemi e più si vede cosa sta diventando la crisi climatica nel continente africano. L’emergenza clima tocca tutto, sicurezza alimentare, migrazioni, conflitti, fenomeni di violenza e conflitto. In Africa rappresenta un enorme fattore di destabilizzazione», conclude Rusconi.

© Riproduzione riservata