Mentre Europa e Stati Uniti sono girati a guardare la guerra in Ucraina e ancora di più quella tra Israele e Hamas, in Sudan la guerra civile iniziata ad aprile è diventata una tragedia epocale e non accenna a placarsi. L’occidente, lasciate di corsa le ambasciate all’indomani dello scoppio della crisi, sembra aver spento i riflettori sul paese africano
Il Sudan sta andando alla deriva nel disinteresse più totale. La scena internazionale, dominata da Ucraina e dal conflitto israelo-palestinese, riserva purtroppo altri angoli di drammi spaventosi in varie zone del mondo, che abbandonati alle loro sorti, viaggiano verso il disastro. Il Sudan, è uno degli esempi più eclatanti.
Portato a modello di riscossa popolare insperata quanto inimmaginabile quando nell’aprile del 2019, grazie ai movimenti della società civile, fu in grado di rovesciare il feroce dittatore Omar al-Bashīr. Ma a partire dal golpe dell’ottobre 2021, il paese è precipitato in una spirale di instabilità progressiva sfociata sette mesi fa in violenza efferata.
In aprile, infatti, le milizie delle Rapid Support Forces (Rsf) guidate dal Generale Mohammed Hamdan Dagalo detto Hemedti, temendo per una perdita di potere e di controllo su miniere e risorse, si sfilarono dall’accordo che avrebbe condotto alla costituzione di un unico esercito nazionale nel primo governo interamente civile della storia del paese, e mossero guerra alle forze armate (Saf) del Generale Abdel Fattah Burhan, presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, de facto capo di Stato dal golpe di fine 2021.
Da quel momento, un conflitto che si pensava breve, si è trasformato in tragedia epocale e non accenna a placarsi. Il conto dei morti rasenta i 10mila, i massicci esodi della popolazione hanno spostato più di 4,6 milioni di persone internamente e quasi 1,3 milioni esternamente. Il passaggio delle frontiere sta mettendo a dura prova i già fragili paesi limitrofi come Ciad (ne accoglie oltre mezzo milione), Sud Sudan (330mila) e vari altri pieni zeppi di problemi interni e a loro volta "esportatori” di profughi.
Ospedali, centri sanitari, scuole, strutture amministrative e sociali sono al collasso con alcune zone, come l’area di Khartoum e l’intero Darfur, in condizioni tragiche. È inoltre preoccupante l’escalation di violenza su donne e ragazze: secondo quanto riferito dall'Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani (Ohchr), nel Darfur le donne vengono sistematicamente rapite, tenute in condizioni di schiavitù, obbligate al riscatto o al matrimonio forzato. Almeno il 70% degli episodi di violenza sessuale secondo l'Ohchr sono attribuiti a uomini dell’Rsf o affiliati.
Abbandonati dall’occidente
L’occidente, lasciate di corsa le ambasciate all’indomani dello scoppio della crisi, sembra aver spento i riflettori sul paese africano e le due fazioni persistono in un atteggiamento di confronto aperto, convinte di poter prevalere l’una sull’altra sul piano militare. Al momento, l’andamento sembra dar ragione alle Rsf che lo scorso weekend hanno dichiarato di aver preso il controllo del quartier generale delle Saf a El Geneina capitale del Darfur occidentale e delle basi militari di Nyala e Zalingei, capitale del Darfur centrale.
Le atrocità commesse da entrambe le fazioni in lotta si susseguono a ritmi infernali. Ma tra i due contendenti, se si potesse stilare una classifica dell’orrore, le Rsf guadagnerebbero la prima posizione. Le milizie di Hemedti, infatti, sono il naturale prolungamento dei Janjaweed i “demoni a cavallo”, un gruppo armato a maggioranza araba finanziato da al-Bashir per reprimere i ribelli del Sudan meridionale. Sempre guidate da Hemedti, si sono rese protagoniste di crimini contro l’umanità nel corso di quella guerra del Darfur dei primi anni del secolo che ha portato alla morte di centinaia di migliaia di individui e al conio della definizione ‘genocidio’. Dietro le Rsf ci sono le famigerate milizie Wagner e gli Emirati Arabi Uniti. L’Egitto, per il momento, è l’unico grande sostenitore delle Saf di Burhan.
Cosa si prospetta all’orizzonte
Si aprono, nel frattempo, due nuovi spiragli di soluzione. Il primo è rappresentato dalla ripresa da fine ottobre dei negoziati di Gedda, sponsorizzati da Stati Uniti e Arabia Saudita. I colloqui si stanno svolgendo «in collaborazione» con i rappresentanti dell’Unione africana e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo dell’Africa orientale (Igad), guidato dal Kenya. Le speranze riposte su questa ormai infinita serie di incontri, però, non sono molte. Fin qui gli sforzi di mediazione hanno avuto un effetto limitato, producendo brevi tregue sistematicamente violate. La dichiarazione del vicecomandante delle Rsf, Abdel Rahim Hamdan Dagalo, fratello di Hemedti, di voler avanzare e continuare a conquistare il territorio detenuto dalle Saf, rilasciata il 3 novembre, a negoziati appena iniziati, suona come un’ennesima beffa.
Più concreta la pista invece battuta dalle forze civili, che dimostrano da sempre senso di responsabilità e operatività maggiori. La riunione preparatoria per un piano di pace svoltasi ad Addis Abeba una decina di giorni fa, ha portato alla decisione di formare un organismo di leadership sotto la guida dell’ex primo ministro del governo di transizione (a metà composto per la prima volta da civili in carica dal 2019 al golpe dell’ottobre 2021, ndr) Abdalla Hamdok.
L’incontro ha dato vita al Coordinamento delle Forze Democratiche Civili che organizzerà una conferenza di pace a inizio anno.
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