Il paese sfigurato dalla guerra: 17mila vittime, mezzo milione di morti di fame e malattia, 8,5 milioni di sfollati. Il rappresentante della società civile Ammar Hamoda: «I colloqui guidati dagli Usa sono l’unica nostra speranza». La nostra intervista
Le statistiche, aggiornate per difetto, parlano di oltre 17mila morti. A questi però andrebbe aggiunto il numero di morti per fame, malnutrizione e malattie gravi (ma anche lievi) che, secondo vari osservatori, possono superare la cifra di mezzo milione nel giro di un paio di mesi se non cambierà radicalmente lo scenario. Gli sfollati, secondo l’Unhcr, sono circa 8,5 milioni, di cui 6,5 interni e oltre due nei paesi limitrofi come Ciad (725.000) o Sud Sudan (487.000).
Non funzionano scuole, quasi tutti i centri sanitari, e la mancanza di accesso all’acqua potabile e all’assistenza sanitaria facilita epidemie mortali, specie nei più piccoli. La Croce rossa internazionale afferma di aver registrato un aumento del 175 per cento nello screening giornaliero dei bambini malnutriti sotto i cinque anni. C’è poi il rischio di carestia, soprattutto nel Darfur occidentale, a Khartoum e nelle aree del Grande Darfur, mentre l’Onu denuncia donne e ragazze vendute nei mercati degli schiavi.
È questo il terrificante – e parziale – bilancio di un anno di guerra in Sudan, l’emergenza umanitaria peggiore degli ultimi anni, che, a sentire i notiziari, a leggere media nazionali e internazionali, sostanzialmente non esiste. Quando scoppiò il conflitto tra le Forze armate sudanesi (Saf) del generale Abdel Fattah Al Burhan e le Rapid Support Forces (Rsf) di Mohamed Hamdan Dagalo (detto Hemedti), il 15 aprile 2023, si pensò a una guerra lampo.
Le Rsf, forze paramilitari sorte sulle ceneri dei famigerati Janjaweed, si rifiutavano di confluire nell’esercito e, ancora di più, di cedere il controllo del paese ai movimenti della società civile che, secondo un accordo firmato qualche mese prima dello scoppio della guerra, di lì a poco avrebbero preso il completo potere del Sudan per la prima volta nella storia dall’indipendenza in poi. Dodici mesi dopo, fallimento dopo fallimento dei colloqui di pace a Gedda sponsorizzati da Usa e Arabia Saudita, si è giunti al disastro umanitario pressoché totale dai contorni inquietanti.
Al fine di comprendere dall’interno la situazione di questo paese, fino a qualche anno fa considerato modello di una “primavera” riuscita (nell’aprile del 2019 grazie alle rivolte pacifiche dei movimenti civili si giunse alla storica cacciata del dittatore sanguinario Omar al Bashir), Domani ha contatto Ammar Hamoda, uno dei leader della Unionist Alliance e portavoce di Forces of Freedom & Change (Ffc), uno dei principali raggruppamenti della società civile in Sudan.
Di recente, Tom Perriello, inviato speciale degli Stati Uniti per il Sudan, ha parlato della possibilità che riprendano i colloqui di pace il 18 aprile a Gedda. Le chiedo quindi innanzitutto se è realistico immaginare una ripresa dei negoziati e, se sì, se confida nella riuscita di questo round dopo tanti fallimenti.
La nostra unica speranza risiede in quei colloqui, e i nostri sforzi devono essere indirizzati a sollecitare le due parti a riprendere i negoziati di Gedda. È ovvio, però, che bisogna cambiare strategia e cominciare a esercitare una maggiore pressione sulle forze belligeranti. Intendo dire che bisognerà ricorrere anche a embargo, sanzioni. Tutte le forze in campo, le potenze internazionali coinvolte, devono fargli capire che sono pronti a fare ogni tipo di pressione per costringerli almeno al cessate il fuoco.
In particolare penso a un intervento più deciso dei facilitatori di questi colloqui, e cioè, oltre a Usa e Arabia Saudita, l’Ue, la troika (Norvegia, Inghilterra e Usa), l’Unione Africana e l’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo). La road map dovrebbe essere una tregua subito, poi un cessate il fuoco per arrivare in seguito a un compromesso per un accordo vero e proprio. Siamo al primo step, ma il timore è che non si arrivi neanche a far ripartire i negoziati.
Il generale Abdel Fattah Al Burhan, infatti, rifiuta di partecipare ai colloqui per il momento…
La società civile, il Sudan’s Coordination of Civil Democratic Forces (Tagadum, l’ombrello che raggruppa tutti i movimenti civili, ndr) e l’ex primo ministro Hamdok (il primo “civile” della storia del Sudan, indagato al momento per “incitamento all’odio”, ndr) vogliono che si arrivi a un punto di incontro. Per questo è stata inviata una richiesta a entrambi gli schieramenti. Abbiamo iniziato con l’esercito. All’inizio hanno accettato, ma non hanno mai indicato possibili date né modalità.
Le Rsf invece hanno accettato e indicato subito una road map. È ovvio che senza le Saf ogni sforzo si vanifica. Noi insistiamo e chiediamo rispetto per il popolo, ma non vediamo segnali incoraggianti da parte di Al Burhan. Certo, va anche detto che all’interno del governo ci sono posizioni contrastanti. Il ministro degli Esteri, ad esempio, così come altri elementi. Ci sono poi alcuni che vorrebbero fermarsi ma non hanno il pieno controllo, altri hanno comunque visioni differenti, anche se non tutte positive.
In che senso?
Beh, c’è la frangia islamista o quei settori ancora nostalgici di Omar al Bashir, che non hanno alcuna simpatia per la rivoluzione, che hanno visioni ancora più pericolose.
Parliamo ora del ruolo che anche in questa fase drammatica sta giocando la società civile. Sta aumentando lo spazio politico e negoziale? E gli sforzi di Tagadum, che sta cercando di organizzare la Convenzione di fondazione il 9 maggio ad Addis Abeba per una piattaforma di pace e democrazia, stanno avendo successo?
Sta emergendo il grande ruolo che la società civile può giocare anche in questa fase, così come avvenne all’epoca della rivoluzione. Sta mettendo pressione alle fazioni per convincerle a esserle più ragionevoli e spingerle così verso Gedda. A inizio aprile ci siamo incontrati ad Addis Abeba per preparare il congresso di maggio e abbiamo riportato un discreto successo.
I movimenti della società civile si sono rafforzati e hanno un ruolo importante da svolgere. Noi siamo certi che ormai il futuro è della società civile, non solo dei militari, ed è per questo che crediamo che al tavolo negoziale in questa fase dovrebbero sedere esponenti dei nostri movimenti. L’invito a Gedda di elementi della società civile può fare realmente la differenza.
Cosa crede che debba succedere per convincere veramente le due fazioni ad arretrare dalle proprie posizioni intransigenti e addivenire almeno a un cessate il fuoco?
Gli equilibri in campo sono cambiati in quest’anno di guerra. I due leader ostentano fiducia nella vittoria, ma a questo punto è ormai chiaro che nessuna delle due parti sta prevalendo sull’altra, c’è una situazione di stallo che ovviamente paga la popolazione. Questo fattore rende più ragionevole, per entrambe, accettare di andare a Gedda e immaginare compromessi.
Inoltre è palese che il popolo non parteggi per nessuna delle due parti in lotta, nessuna può vantare un consenso dopo questo periodo drammatico, al contrario il popolo imputa a entrambe questa situazione. Se anche uno vincesse, e al momento sembra improbabile, avrebbe un paese in macerie e il popolo contro.
Sarà importante concentrare quindi ogni tipo di sforzi, da una parte la società civile, dall’altra la comunità internazionale, abbiamo bisogno di un grande impegno, che vengano proposte e implementate sanzioni, il blocco di ogni scambio commerciale, che non entrino armi o almeno siano limitate.
A Gedda, se mai riprenderanno i colloqui, dopo le questioni più urgenti come cessate il fuoco e accesso protetto degli aiuti umanitari, andranno affrontate anche le cause di questo conflitto?
Ovviamente il primo obiettivo è fermare la guerra. Poi, non so se a Gedda, ma di certo andranno affrontate le cause alla base del conflitto, che sono essenzialmente politiche. Dopo il colpo di stato militare del 25 ottobre 2021 (l’esercito prese il potere mettendo fine al primo esperimento di governo con presenza di civili, al 50 per cento, ndr), l’arena politica è cambiata radicalmente.
L’accordo quadro (che alla fine del 2022 stava per essere firmato e avrebbe condotto a un governo interamente “civile”, ndr) costituiva un passo enorme per risolvere la questione politica, ma alcuni hanno deciso di entrare in guerra per impedire questo grande passo.
© Riproduzione riservata