La candidatura israeliana al programma visa-free Usa pone la questione della discriminazione dei palestinesi: una regola israeliana prevede che palestinesi con la seconda cittadinanza non possano usarla per viaggiare nel paese. Ma gli Usa chiedono reciprocità, e Netanyahu è pronto a cedere alle loro richieste
Mariam è una trentenne americano-palestinese che risiede in Cisgiordania da diversi anni. Malgrado il suo passaporto Usa non ha il diritto, come tutti gli altri cittadini americani, di entrare in Israele ottenendo un visto direttamente al posto di frontiera: non può recarsi né a Tel Aviv, né a Gerusalemme, né in un insediamento ebraico senza permessi speciali delle autorità militari.
«Sono anche americana ma non importa, è illegale per me andarci sotto la legge israeliana», dice. Nella stessa situazione si trovano decine di migliaia di palestinesi con la cittadinanza Usa: ma a breve le cose potrebbero cambiare.
La regola controversa
Israele tratta tutti i palestinesi detentori di una seconda cittadinanza alla stregua degli altri palestinesi: non possono cioè utilizzare il documento di viaggio straniero per spostarsi liberamente laddove i locali sono soggetti alle restrizioni dell’occupazione. Ai check-point gli italo-palestinesi, franco-palestinesi, o americano-palestinesi, sono semplicemente palestinesi.
La regola è vecchia ma una trattativa in corso fra Israele e gli Stati Uniti l’ha resa nuovamente di attualità. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu vuole a tutti i costi portare Israele dentro il programma “Visa waiver”, che consente ai cittadini dei 40 paesi membri (fra cui l’Italia) di recarsi negli Stati Uniti per 90 giorni senza la lunga e costosa trafila burocratica per ottenere un visto (waiver significa, per l’appunto, esenzione). Basta compilare l’Esta (Electronic System for Travel Authorization) online.
Tale scorciatoia sarebbe rivoluzionaria per gli israeliani, che con l’America intrattengono relazioni fittissime. Ma la normativa per l’accesso al Visa waiver program prevede una clausola di reciprocità secondo cui il paese candidato deve garantire a sua volta libero accesso a tutti i cittadini Usa, senza distinzioni. Una richiesta all’apparenza scontata per una democrazia.
«Il nostro criterio è blue is blue (come il passaporto americano, ndr.), il che significa uguale trattamento e libertà di viaggio per tutti i cittadini statunitensi indipendentemente dall’origine nazionale, dalla religione, o dall’etnia», ha scritto un gruppo di senatori statunitensi in una lettera al segretario di Stato Anthony Blinken riguardo la candidatura di Israele. Anche l’ambasciatore americano in Israele Tom Nides ha usato lo slogan “blue is blue”, il blu è blu: «Significa anche che qualsiasi americano, indipendentemente dalla sua origine nazionale, religione o etnia, deve essere libero di recarsi in Israele», ha scritto.
I diversi gruppi
Se la libertà di movimento è formalmente interdetta in loco agli americani che risiedono nei territori – si stima ne vivano circa 35,000 in Cisgiordania, mentre altrettanti risultano nei registri anagrafici dell’Autorità Palestinese ma risiedono all’estero – non c’è nessuna limitazione formale per gli americani di origine palestinese che non hanno una carta d’identità locale.
Tuttavia anche chi appartiene a questo gruppo, come tutti gli altri stranieri di origine palestinese o semplicemente araba, può facilmente incontrare problemi e forme di discriminazione informale ai posti di frontiera. Per il resto Israele soddisfa tutti i requisiti: è un paese con un Pil pro-capite alto, che presenta di conseguenza un rischio minore di immigrazione illegale, ed è riuscito a far scendere il tasso di rifiuti per le richieste di visti turistici al di sotto della soglia del 3 per cento. Rimane solo la questione palestinese.
I passi del governo
Il fatto che Washington abbia puntato i piedi sulla questione dei diritti dei propri cittadini differenzia gli Usa dall’Unione europea, i cui stati garantiscono da anni l’ingresso senza visto degli israeliani senza richiedere tutele per i connazionali palestinesi.
Di fronte alle resistenze dell’amministrazione di Joe Biden, Netanyahu si è dimostrato pronto a spingersi oltre le Colonne d’Ercole: ha scavalcato le obiezioni, basate su considerazioni di sicurezza, dei servizi interni Shin Bet, e ha dato il via libera a un programma pilota che accontenta gli Usa.
Per la prima volta, per un periodo di prova, gli americani palestinesi possono richiedere il visto d’ingresso in Israele. In seguito a ulteriori pressioni sono rientrati nell’iniziativa anche gli americani di Gaza: ce ne sarebbero circa 500, secondo le stime.
L’esito del test – non sono ancora noti dettagli – sarà decisivo per le sorti della candidatura israeliana al programma Esta: il termine ultimo per concludere le trattative è fissato per il 30 settembre.
Ne potrebbe uscire un altro fallimento per il governo Netanyahu, oppure una piccola vittoria per Israele e un’ennesima fattispecie per i palestinesi: oltre ai palestinesi israeliani dentro i confini del 48, ai residenti di Gerusalemme, a quelli della Cisgiordania, ai profughi di varia natura, ci saranno anche palestinesi americani con diritti diversi da tutti gli altri.
© Riproduzione riservata