Il premier ha preparato una legge per imporre a tutte le autorità britanniche di considerare il Ruanda un paese sicuro, così da poter ignorare le preoccupazioni della Corte suprema che aveva bocciato il Piano per spedire i migranti in Africa
Basta una legge per rendere un paese sicuro. L’idea del premier britannico Rishi Sunak è questa: il Safety of Rwanda bill approvato martedì sera in prima battuta dal Parlamento serve a indicare nero su bianco che il Ruanda sia un luogo sicuro, in modo da poterci spedire i richiedenti asilo arrivati nel Regno Unito senza che la Corte suprema possa mettersi di nuovo di traverso.
Nel giorno in cui un migrante si è tolto la vita sulla chiatta Bibby Stockholm al largo di Portland, dove vengono tenuti alcuni richiedenti asilo, la Camera dei comuni dopo varie tensioni approva con 313 voti a favore contro 269 contrari quella che lo stesso Sunak ha definito «una delle più dure leggi contro l’immigrazione».
Il piano Ruanda e la sentenza della corte
L’ormai tanto discusso progetto di Londra, annunciato in pompa magna da Boris Johnson nell’aprile del 2022, mira a inviare nel paese africano i migranti in attesa che la loro richiesta di asilo venga processata. Una volta lì, per chi viene riconosciuto lo status di rifugiato ci sarebbe la possibilità di essere accolto definitivamente dal Ruanda. In caso contrario di essere rimpatriato.
A metà novembre, però, l’Alta corte britannica ha bocciato il piano dei Tories, reputandolo illegale dato il rischio per i migranti di essere respinti dal Ruanda e di conseguenza di subire persecuzioni o maltrattamenti. Eventualità che violerebbe la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, di cui il Regno Unito è firmatario. Per la Corte suprema, quindi, lo stato dell’Africa orientale non è un paese terzo sicuro. La sentenza ha infastidito sia le autorità di Kigali sia il governo di Sunak, che tuttavia non ha perso tempo per sottolineare come il nodo indigesto per la Corte non fosse tanto quello di trasferire i migranti in un altro paese, quanto l’insicurezza della meta, cioè del Ruanda.
Il “Safety of Rwanda bill”
Forte di questo convincimento, il premier nel giro di tre settimane ha preparato una legge che impone a ogni “decision maker” di considerare in modo definitivo la Repubblica del Ruanda come paese sicuro. Una forzatura che costringe i tribunali a rivedere le proprie posizioni e a non poter più contestare il piano, almeno per quanto riguarda le condizioni di stabilità e sicurezza del paese africano.
Il Safety of Rwanda bill, oltre a essere una norma che si incunea tra le pieghe del rapporto tra Parlamento, potere giudiziario e diritto internazionale, impone ai tribunali britannici di ignorare alcune sezioni dello Human Rights Act del 1998, la legislazione sui diritti umani, così come ai ministri il diritto di non riconoscere le misure d’emergenza e provvisorie della Corte di Strasburgo. Tutto per poter mandare i migranti in Ruanda.
A rimanere è l’impianto generale della Cedu, tanto che i richiedenti asilo potranno ancora contestare il loro trasferimento ma solo sulla base di motivi individuali, cioè dimostrando come il loro approdo nel paese africano possa comportare dei gravi rischi per la propria persona. Il governo vorrebbe comunque operare all’interno del diritto internazionale, per non perdere fiducia dagli organismi mondiali, mentre un’ala estremista dei Tories spinge per uscire dalla Convenzione in moda da non esserne più condizionata.
Lo “Stop the boats” di Sunak
Nelle intenzioni di Sunak, però, tutto (o quasi) è lecito: bisogna portare a termine il piano lanciato da Johnson e Priti Patel, coltivato poi dalla controversa Home Secretary Suella Braverman. Per il premier, che con il suo slogan “stop the boats” ha puntato molto sul contrasto all’immigrazione irregolare, spedire i richiedenti asilo in Ruanda può funzionare da deterrente e scoraggiare l’arrivo di barchini sulle coste britanniche. Nel 2022, secondo il governo, sono state circa 45.700 le persone giunte nel Regno Unito con imbarcazioni di fortuna attraverso il canale della Manica, mentre nel 2023 - stando ai numeri di inizio dicembre - sono calate di un terzo, sfiorando quota 30mila unità.
Downing Street vuole arrivare alle elezioni del prossimo anno con almeno un successo in tasca. Sempre nel 2022 il saldo migratorio netto è stato di 745mila persone, una cifra record che ha portato Sunak ad annunciare una strategia per tagliare i numeri di 300mila unità, prevedendo l’aumento del salario minimo richiesto ai lavoratori qualificati all’estero e il divieto per gli operatori sanitari di portare persone a carico nel Regno Unito.
L’obiettivo – come affermato dal ministro per l’Immigrazione Michael Tomlinson – è far decollare «centinaia e poi migliaia» di migranti in direzione Kigali. I voli finora sono stati bloccati da tribunali e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ad oggi, gli unici ad atterrare in Ruanda sono stati i promotori dell’iniziativa, cioè i membri dei governi britannici susseguitisi nell’ultimo anno e mezzo. Ad accoglierli, sempre il presidente ruandese Paul Kagame: d’altronde lui non cambia, è al potere dal 2000 ed è in corsa per il quarto mandato.
Il nuovo trattato con il Ruanda
L’ultimo ad arrivare nella capitale ruandese è stato il segretario James Cleverly, spostato di recente dagli Esteri all’Interno, che martedì 5 dicembre a Kigali ha firmato un nuovo trattato con lo scopo di venire incontro alle preoccupazioni della Corte suprema. Il Ruanda, secondo il patto, non espellerà i migranti in altri paesi dove esistono rischi, l’unica nazione dove potranno essere inviati è proprio il Regno Unito, sempre dopo l’approvazione di Londra. Sarà poi previsto un comitato indipendente che possa monitorare sul rispetto degli obblighi del paese africano. In più, i britannici pagheranno tutte le spese di soggiorno delle persone trasferite fino a un massimo di cinque anni.
Costi che si aggiungono a quelli già finiti nelle casse ruandesi. Finora il Regno Unito ha speso 140 milioni di sterline con cui sono state costruite le strutture pensate per ospitare i migranti, le abitazioni a 6500 chilometri di distanza dalle coste britanniche. Una cifra che però non è bastata: il ministero dell’Interno ha reso noto, dopo indiscrezioni, che quest’anno si sono aggiunti altri 100 milioni, più i 50 già previsti per l’anno finanziario 2024-2025. Di conseguenza, il costo previsto dal Regno Unito per il piano Ruanda è di almeno 290 milioni di sterline in poco più di due anni. Numeri che cominciano a diventare tanti, considerati i risultati fin qui inesistenti.
La lotta interna ai Tories
Sunak si gioca molto della sua leadership con questo progetto. Proprio per il carattere propagandistico del piano Ruanda, renderlo operativo prima delle elezioni, dopo le tante peripezie legali, sarebbe utile alla narrazione conservatrice. Ma il partito è lacerato da una crisi irreversibile: al di là dei sondaggi che vedono da mesi i laburisti in vantaggio di circa 20 punti percentuali, i Tories dai tempi della Brexit sono vittime e artefici di fratture che continuano ad acuirsi. Tanto che l’unico modo possibile per sanarle sembra quello di resettare il partito dopo una sempre più probabile sconfitta elettorale. L’ultimo a lasciare il governo è stato il sottosegretario all’immigrazione Robert Jenrick: per l’esponente radicale vicino a Braverman il nuovo disegno di legge di Sunak è insufficiente e si arenerà nei tribunali. Convinzione non peregrina, visto che i legali di Downing Street reputano del 50 per cento la possibilità di riuscita del piano entro le urne.
Con 313 voti a favore e 269 contrari, Sunak ha rischiato ma alla fine ha superato il primo scoglio della Camera dei comuni, nonostante il voto contrario dell’opposizione e di alcuni ribelli Tories. I membri dell’European Research Group, una delle ali più estremiste, insieme ad altre correnti interne, si sono astenuti, sostenendo siano necessari diversi emendamenti per eliminarne le «debolezze» e dicendosi pronti a votare contro in avanti, mentre i parlamentari più moderati dell’One nation hanno appoggiato il testo di Sunak, ma non accetteranno modifiche. La partita, quindi, non è chiusa.
Anche perché la voglia di congiure non ha abbandonato un partito avvolto sempre più nel suo «psicodramma», per citare Keir Starmer. La poltrona a Downing Street scotta e Sunak è costantemente sulla graticola; nelle ore precedenti al voto erano circolate anche le opzioni in caso di sconfitta, dal ritorno di BoJo a quello di David Cameron. Ironia del destino: martedì è stato il quarto anniversario dallo storico trionfo elettorale dei conservatori di Johnson. Un risultato che oggi, con le elezioni anticipate chieste a gran voce dai laburisti e le urne che si avvicinano, è un miraggio per i Tories.
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