Una nazione che prospera tra le sue contraddizioni: mentre le disuguaglianze crescono, l’accoglienza diventa una Parigi-Dakar e c'è chi brucia il Corano, Greta Thunberg con la sua presa di coscienza ecologica incarna il profondo rapporto che i suoi concittadini hanno con la natura
L’idea italiana della Svezia può essere divisa in due gruppi generazionali, il primo reciterebbe: Abba, Bergman, Borg, Ekberg, Palme, Pippi Calzelunghe. E il secondo: Greta, Ibrahimović, Ikea, Stieg Larsson, Max Martin, Skype e Spotify.
In mezzo c’è un paese estremo e dei paradossi che a lungo ha incarnato l’attico del desiderio e un immaginario maschile superato. Ma se prendiamo un vecchio film del 1963 scritto da Rodolfo Sonego – il cervello di Alberto Sordi, secondo Tatti Sanguineti – e diretto da Gian Luigi Polidoro, Il diavolo, che vinse l’Orso d’oro a Berlino e diede a Sordi il Golden Globe, e lo mettiamo a confronto con un documentario, La teoria svedese dell’amore (2016), del regista italosvedese Erik Gandini, riusciamo a trovare un punto di incontro tra lo sguardo delle due differenti generazioni italiane, il mito svedese e il presente a Stoccolma.
Una nuova realtà
Ma prima dobbiamo raccontare che la Svezia è entrata nella Nato convincendo lo scettico presidente turco, Erdogan, e che tutti i princìpi, o quasi, di Olof Palme – premier e padre della socialdemocrazia svedese, assassinato nel 1986 al centro di Stoccolma all’uscita di un cinema, delitto non risolto – si stanno sciogliendo come i ghiacciai di cui si preoccupa Greta Thunberg.
Il partito socialdemocratico, guidato da Magdalena Andersson, pur conservando la maggioranza nel paese, sta all’opposizione di una coalizione di centrodestra guidata dal premier Ulf Kristersson che ha una sponda nel partito di estrema destra, Swedish Democrats, di Jimmie Åkesson, una sorta di Salvini che studia, e fa vacillare la Svezia dell’accoglienza, provando continuamente a riscriverne la storia
La cosa grave è che ci sta riuscendo, rosicchiando un po’ alla volta i vecchi diritti. Il paradosso è che ci riesce spingendo sulle libertà.
In nome della libertà
A fine giugno, Salwan Momika, cristiano iracheno, vicino al partito di Åkesson, in nome della libertà di espressione e della mancanza di comprensione dei princìpi svedesi, aveva bruciato un Corano davanti all’ambasciata turca col permesso della polizia, e qualche giorno fa ha tentato di farlo davanti a quella irachena, limitandosi poi “solo” a calpestarlo.
E in nome della libertà il rifugiato siriano, Ahmad Alloush, ha ottenuto il permesso di bruciare Torah e Bibbia, poi rinunciando senza nemmeno calpestarli.
L’esercizio della libertà svedese è principalmente rapportato allo spazio e si riflette in tutte le scelte: dalla mancanza di contatto fisico alla preoccupazione dei confini che ha spinto la Svezia ad entrare nella Nato.
Anche la gestione del Covid-19 ha avuto a che fare con i princìpi di libertà, arrivando ai confini di una politica arbitraria che ha scelto una immunità di gregge naturale, senza chiusure, ancora una volta una misura estrema che tende a difendere più l’immagine svedese che la salute pubblica (ventunomila morti su due milioni e seicentomila casi).
Nuovi spazi
Per tutto il film di Polidoro, scritto da Sonego nella Svezia agli inizi degli anni Sessanta, Alberto Sordi, ossessionato dalla libertà sessuale delle donne svedesi, senza riuscire a consumarla, chiede di Dio alle ragazze, ricevendo delle evasioni teologiche, tanto che l’inferno sembra essere una semplice sauna a 70°, dove le donne trovano giovamento e Sordi soffre.
E tutta l’indagine su Dio trova il suo imbuto nella domanda alla fine del film: Sordi è bloccato, dopo un folle valzer in auto, su un lago ghiacciato che si sta spaccando, e chiede alla donna al volante, che gli parla solo in svedese, Religiosa? Nej. E non hai paura? Nej nej. Ma ci salveremo? Ja självklart. Sì, certo.
Ma lo dice con distacco e sicurezza. Quel distacco e quella sicurezza diverranno il seme negli anni Settanta del manifesto “Familjen i framtiden” (La famiglia del futuro) che Sonego presagisce e Erik Gandini racconta ne La teoria svedese dell’amore: in un paese ricco e sicuro si potevano liberare gli individui attraverso la grande rete dello stato, si staccavano gli uomini dalle donne, i figli dai genitori, i vecchi dai giovani, e per farlo si costruivano nuovi spazi.
Nessuno dipendeva più dall’altro, si scioglievano vincoli familiari, economici, sociali, culturali. E con grande entusiasmo si procedeva verso l’estremo.
Incubo svedese
Poi, però, non si sa ancora bene chi, forse i nazisti, forse i sudafricani dell’apartheid, forse gli iracheni o gli iraniani, forse i russi o gli americani, o i poveri curdi – che tornano sempre anche nelle trattative per entrare nella Nato – forse la lobby delle armi, o forse i cileni di Pinochet, o forse la Stasi e la Ddr, e altri possibili assassini: sparò a Olof Palme la sera del 28 febbraio 1986, al mattino – come accadde nel 1975 a Pasolini, di ritorno dalla Svezia, con Furio Colombo – aveva dato una intervista dove diceva siamo tutti in pericolo, e il sogno prese una forma diversa.
Quella che racconta Gandini. Oggi, metà di quegli alloggi costruiti con euforia e speranza sono abitati da persone sole, che hanno figli da soli – c’è un lungo racconto di una banca dello sperma –, che muoiono da soli e che vengono ritrovati dopo tempo – c’è il racconto del Boutredningsenheten che gestisce questi casi ritracciando gli eredi e occupandosi delle sepolture.
Lo spazio si è così allargato, estremizzato, che persino l’autogestione della solitudine da orfana di Pippi Calzelunghe sembra una Comune.
E quello spazio, quel distacco, che durante il Covid pesava sulle comunità straniere, che non avendo acquisito la libertà dell’isolamento si contagiavano forse realizzando l’immunità sperata per conto degli svedesi isolati e abituati al non contatto, è diventato una ombra pesantissima su un centinaio di bambini stranieri, al punto di far pensare a un racconto di Philip Dick o a un incubo di Stephen King.
Sopraffatti
Un paradosso, l’ennesimo, nel paese dell’attenzione massima all’infanzia. Dal 1998, succede che i figli dei richiedenti asilo vengano colpiti da una misteriosa malattia – raccontata nel documentario Sopraffatti dalla vita – una sindrome da rassegnazione che sopraggiunge durante l’attesa o alla respinta dell’asilo (dopo il clamore svedese, la libertà che racconta, si sono scoperti altri casi fuori dal paese nei campi profughi).
I bambini cadono in uno stato comatoso, e si addormentano nell’attesa. I medici svedesi raccontano di come le voci e i gesti dei genitori e le loro paure diventino un vero e proprio assedio che porta i bimbi alla resa.
Nel documentario si vede la reazione di Dasha (7 anni), mesi dopo l’accoglienza, il suo risveglio è un pezzetto del sogno di Palme che difendeva il Vietnam, Mandela e l’indipendenza di Cuba.
Ma non c’è solo la Svezia che brucia i libri, ci fu un rogo nazista qualche anno fa, in divisa da Ss, peccato non ci fosse un Belushi a interromperne il rito; non c’è solo la Svezia isolata ed estrema, dove le disuguaglianze crescono e l’accoglienza diventa una Parigi-Dakar; ma c’è anche quella che genera Greta e la sua presa di coscienza ecologica estesa al mondo – incarando il profondo rapporto che gli svedesi hanno con la natura –, che ha come colonna sonora Max Martin e le sue derivazioni, e un mucchio di bravi scrittori che si è opposto al canone culturale che il governo voleva imporre. Insomma, contro la libertà con la libertà.
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