Nymphia Wind ha vinto il concorso di drag queen e ha incassato l’endorsement virale della presidente Tsai. La libertà sessuale dell’isola si scontra con il moralismo del regime cinese e anche con la politica di Hong Kong
Lo spettacolo al palazzo presidenziale di Taipei è stato inedito. Nymphia Wind, la drag queen taiwanese fresca della sua vittoria al concorso di bellezza in drag ideato e condotto da RuPaul (attore, personalità televisiva e drag queen statunitense, che ha dato il via al concorso internazionale nel 2009), è comparsa completamente avvolta in molti strati di tulle giallo, scendendo dalla scalinata interna del palazzo, sotto al busto impettito del padre della repubblica cinese, il rivoluzionario Sun Yatsen (1866-1925).
Di fianco a lei, altre cinque drag queen taiwanesi, avvolte nel tulle rosso, arancione, verde, blu e viola (i colori del pride) con sotto costumi succinti e aderenti, innalzate su stivali a coscia o sandali con il tacco a spillo. La performance era gioiosa e irriverente, e accompagnata dal sorriso costante di Tsai Ing-wen, Presidente taiwanese in carica fino alla fine di maggio.
Il successo di Nymphia Wind ha portato di nuovo alla ribalta la profonda differenza fra Taiwan e le altre due società cinesi – la Repubblica popolare cinese e Hong Kong – sottolineando quanto più facile sia per la democratica Taiwan accedere a quel soft power a cui gli Stati autoritari anelano, faticando tanto ad ottenerlo.
Vivere senza paura
Nymphia, una volta coronata, ha innalzato il trofeo proclamando: «Taiwan! Questo è per te!» Conquistando, oltre alla corona di reginetta mondiale del drag, anche i cuori dei suoi compatrioti taiwanesi. Il giorno stesso, ha ricevuto le congratulazioni presidenziali, con Tsai che l’ha elogiata sia per il successo ottenuto, sia per il suo «vivere senza paura», in un tweet diventato virale.
Si sa che Taiwan è stata la prima, in tutta l’Asia, a rendere legale il matrimonio fra coppie dello stesso sesso nel 2019, mostrando una volta di più quanto aperta, dinamica e partecipata sia la democrazia di quest’isola che vive sotto la minaccia militare di Pechino.
La differenza con la Cina continentale, e con Hong Kong, non potrebbe essere più netta. La Cina possiede certo una celebrità transgender, l’ex colonnello dell’Esercito di liberazione del popolo Jin Xing, divenuta donna nel 1996. Ma ad ogni occasione Jin si premura di dire di non essere un’attivista per i diritti Lgbtq+. Anzi, non è nemmeno femminista: ballerina, coreografa, conduttrice di talk show, cantante ed attrice, si è calata nel ruolo dell’iperfemminilità elegante e sottomessa.
In più di una puntata del suo talk show ha infatti sostenuto che le donne che non hanno marito sono in una condizione «terribile», consigliando loro di assecondare maggiormente gli uomini, compiacerli e non cercare mai di «competere» con loro. Aggiungendo che «c’è una certa dose di verità» nell’idea che gli uomini siano superiori alle donne – altrimenti, perché questo concetto sarebbe sopravvissuto così a lungo? Più patriarcale di così, si farebbe fatica.
Non che in Cina la visione (anche legale) dei transgender sia assimilata a quella di una sessualità non eteroconforme. La transizione di genere è vista come una pratica che può correggere uno sbaglio di natura – un corpo e una mente parzialmente ibridi per errore, che la chirurgia moderna e le terapie ormonali possono rimettere a posto. L’omosessualità invece rimane più tabù, tolta dalle malattie mentali solo alla fine del secolo scorso, e che deve fare i conti con un’altalenante apertura e chiusura governativa nei confronti di orientamenti sessuali non etero.
Moralità comunista
Prima ancora che di tradizione cinese, dobbiamo vedere questa chiusura mentale come parte della moralità comunista – che fin dai suoi albori rifiutava le “decadenze borghesi” che affliggerebbero le società capitaliste. Se guardiamo invece alla Cina storica, l’amore fra persone dello stesso sesso non era visto con tanto scandalo: un famoso episodio imperiale fa sì che per parlare di omosessualità si possa utilizzare il termine “passione della manica tagliata” (duan xiu in cinese). Questo allude a quando l’imperatore Ai della dinastia Han (206 avanti Cristo – 220 dopo Cristo) decise di tagliarsi la lunga manica di seta e presentarsi davanti al Consiglio con la tunica sforbiciata, perché il suo amante vi si era addormentato sopra, e l’imperatore non voleva disturbare il sonno del suo amato.
Dal 1949, però, anno dell’arrivo dei comunisti al potere, la moda vestiaria non prevede affatto tuniche dalle ampie maniche - e la tolleranza per passioni che potrebbero coinvolgerne il taglio si è ristretta di pari passo. Ancora più che una semplice questione di apertura mentale, quello che è stato spesso preso di mira dalle autorità sono le organizzazioni legate ai gruppi Lgbtq+. La parata del ShanghaiPride, per esempio, non ha avuto luogo dal 2021, e anche quando poteva sfilare, lo faceva sotto intenso controllo. Il desiderio che i governanti trovano più obiettabile non è tanto quello legato alla sessualità Lgbtq+, ma quello che porta a creare gruppi organizzati che possano portare avanti le proprie istanze. Indipendentemente dal Partito.
Gli ostacoli a Hong Kong
Il governo di Hong Kong, pur amministrando una società che ha accettato l’esistenza di coppie dello stesso sesso, continua ad ostacolare la possibilità di unioni legali fra coppie omosessuali. Preferendo ritrovarsi imbrigliato in cause giudiziarie per non voler riconoscere nemmeno i matrimoni contratti all’estero – facendo dunque una differenziazione di fatto fra matrimoni legali non tanto a seconda della giurisdizione in cui sono stati contratti, ma in base al genere delle persone coinvolte.
Billy Leung, attivista per i diritti Lgbtq+, hongkonghese ora residente in Canada, pensa che in parte il problema sia di natura coloniale: «Come in tutte le ex Colonie britanniche, la sodomia era stata messa fuori legge», parte di un puritanesimo vittoriano esportato alle terre colonizzate, e che i governi post-indipendenza non hanno sempre reputato necessario modificare.
Ma il problema non è solo nel passato, specifica Leung: «I diritti dei cittadini Lgbtq+ potrebbero essere molto avanti visto l’ampio sostegno fra la popolazione, che è andato crescendo nelle ultime due decadi. È chiaro che Hong Kong è pronta a progredire – come società, come cultura, e anche a livello legislativo – se non fosse mantenuta indietro da individui con una mentalità ristretta, che detengono però un potere politico massiccio, grazie alla struttura disfunzionale del governo di Hong Kong».
Una situazione che fa capire che i diritti delle persone non eterosessuali sono uno dei primissimi diritti civili, che aprono la porta a tante altre libertà; proprio quelle che sia la Cina continentale che Hong Kong vogliono restringere, anziché ampliare.
E del resto, che il Partito non sia mai uscito dal letto dei cittadini cinesi lo vediamo in tante circostanze: prima con la politica del figlio unico, poi con il permesso di fare fino a due figli, fino all’ansia odierna del fate più figli possibile, il governo cinese continua a sentirsi autorizzato a supervisionare anche la sfera più privata delle vite individuali. Confermando dunque quanto più facile sia vivere liberamente la propria sessualità in una democrazia, che non in regimi autoritari.
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