La prosperità della giovane democrazia dipende in parte dal regime. Chi governerà l’isola dovrà affrontare la pressione economica cinese
Conquistare Taiwan “senza combattere”. Proprio come, nell’Arte della guerra, il generale e filosofo Sun Zi (544-496 a.C.) raccomanda di affrontare il nemico. L’arsenale dal quale Pechino attingerà per “riunificare” Taiwan - chiunque, dopo il voto odierno, controllerà l’isola nei prossimi anni, è anzitutto economico.
Il motivo? La prosperità della giovane democrazia dipende in parte dal suo dirimpettaio autoritario, del quale, negli ultimi decenni, ha favorito lo sviluppo, rimanendovi però avvinghiata. Un dato, più di altri, fotografa questa realtà: Taiwan è uno dei pochi paesi al mondo a vantare un surplus commerciale con la Repubblica popolare cinese: 37 miliardi di dollari nel 2022, circa il 5 per cento del Pil dell’isola.
Nei confronti di Taiwan la Repubblica popolare cinese (Rpc) pratica la geoeconomia (definita “war by other means” dagli accademici Robert Blackwill e Jennifer Harris), servendosi alternativamente del bastone e della carota. Un esempio clamoroso dell’impiego del primo è assurto agli onori della cronaca l’ottobre scorso, quando l’indipendente Terry Gou ha ritirato la sua candidatura alla presidenza – che avrebbe ulteriormente frammentato l’opposizione – dopo l’annuncio dell’apertura di un’inchiesta per evasione fiscale contro la sua Foxconn in Cina, dove la multinazionale taiwanese dell’elettronica è il primo datore di lavoro del settore privato.
All’incontro a Taipei tra la presidente Tsai Ing-wen e la speaker della Camera Usa, Nancy Pelosi, il 2 agosto 2022, Pechino reagì immediatamente sospendendo l’importazione di duemila prodotti agroalimentari taiwanesi, oltre che inscenando un blocco navale dell’isola.
Il “gemellaggio”
Questa volta, alla vigilia delle elezioni, la Rpc ha annunciato la sospensione dei dazi agevolati sull’importazione di una dozzina di prodotti petrolchimici coperti dall’Accordo quadro di cooperazione economica (Ecfa) tra le due sponde dello stretto, siglato nel 2010 sotto la presidenza di Ma Ying-jeou, del quale il Partito progressista democratico (Dpp) di Tsai vuole limitare l’applicazione.
Nello stesso tempo il governo cinese pubblicizza i vantaggi che alla controparte deriverebbero da una maggiore integrazione tra le due sponde dello Stretto. Martedì scorso Pechino ha rilanciato nuove agevolazioni per gli scambi, gli investimenti e la residenza in Cina per i taiwanesi, affinché la provincia del Fujian (di fronte all’isola) possa «sfruttare meglio la sua relazione unica con Taiwan» e rafforzare il suo ruolo di “zona modello” per l’agognata “riunificazione”.
Avvertimenti e blandizie che, in caso di cambio di governo, troverebbero forse a Taipei orecchie più ricettive, tra gli imprenditori che non gradiscono le interferenze della politica, così come nel Kuomintang (Kmt) di Hou Yu-ih e nel Partito popolare (Tpp) di Ko Wen-jie, aperti al dialogo con Pechino. Ma che, finora, si sono rivelati un boomerang.
Fuga di capitali
Guidata negli ultimi otto anni del Dpp, Taiwan si è aggregata alla strategia di “de-risking” promossa da Stati Uniti e Unione Europea. Tsmc, il colosso nazionale dei semiconduttori, produrrà presto negli Usa, in Giappone e in Germania alcuni tra i suoi microchip più avanzati, avendo deciso di costruire i relativi impianti in paesi amici e non in Cina, dove era concentrata la sua manifattura all’estero.
Foxconn, la multinazionale taiwanese dell’elettronica che ha in Cina la sua maggiore base produttiva, investirà 1,5 miliardi di dollari per assemblare iPhone per Apple in India. Tanti businessman taiwanesi negli ultimi tempi hanno ritirato i loro capitali dalla Cina e li hanno reinvestiti a Taiwan, soprattutto nel mattone. La riduzione della dipendenza dalla Cina ha effetti diretti anche sul commercio.
Nel 2023, le esportazioni taiwanesi verso la Rpc hanno toccato il livello più basso degli ultimi 21 anni: 152 miliardi di dollari (-18,1 per cento rispetto al 2022) e costituiscono il 35,2 per cento del totale. Quelle verso gli Stati Uniti - 76,2 miliardi di dollari - hanno invece raggiunto il picco degli ultimi 21 anni e rappresentano il 17,6 per cento del complesso dell’export. Una quota analoga di prodotti taiwanesi ha raggiunto i paesi dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean).
Per effetto della New Southbound Policy lanciata da Tsai appena eletta nel 2016, gli investimenti taiwanesi nell’Asean e nell’Asia meridionale hanno raggiunto i 5,2 miliardi di dollari nel 2022, superando i 5 miliardi di dollari investiti in Cina nello stesso periodo.
Il ruolo degli Usa
Tuttavia questo approccio pone un duplice problema. Da un lato, non è chiaro se saranno replicabili altrove i successi del capitale taiwanese nella Rpc, che - per dimensioni del mercato interno, costi di produzione e logistica - ha rappresentato un’opportunità forse irripetibile.
Dall’altro, fino a che punto potrà spingersi il “decuopling”, la “separazione” di quella che continua a considerare una sua provincia ribelle, senza provocare una dura reazione da parte di Pechino? «Riteniamo che il trend non potrà che continuare, a causa della spinta che arriva dalle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina», ha dichiarato recentemente la ministra dell’economia taiwanese Wang Mei-hua.
Taipei si sta allineando ai controlli e alle norme sulle esportazioni degli Stati Uniti, e - ha spiegato Wang - la Entity List di Washington, ovvero la sua lista nera commerciale, funge da modello per la catena di approvvigionamento hi-tech dell’isola, in particolare per il settore dei microchip. «Studiamo molto attentamente i regolamenti di controllo delle esportazioni statunitensi, poiché le nostre aziende impiegano molte tecnologie originarie degli Stati Uniti», ha dichiarato Wang, aggiungendo che l’amministrazione Biden invia a Taiwan i propri esperti di controllo delle esportazioni per spiegare i dettagli di tali regole.
La “riunificazione della madrepatria” - ha sostenuto Xi Jinping nel suo discorso di Capodanno - è una “certezza storica”. Intanto però a Taipei guardano sempre più a Washington e sempre meno a Pechino.
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