Il nostro governo fu subito rapido a offrire rifugio ai dissidenti e fermo nella sua condanna politica di Pinochet. Ma non interruppe i rapporti commerciali con il Cile. Una vera svolta arriverà solo negli anni Ottanta
Il 5 luglio scorso, in occasione della visita di stato in Cile, il presidente Sergio Mattarella ha reso omaggio al monumento in onore di Lumi Videla che si trova nel giardino dell’ambasciata italiana a Santiago. Videla era una militante del Movimiento de Izquierda Revolucionaria, un gruppo di lotta armata nato nel 1965 ma le cui azioni di guerriglia sarebbero iniziate solo alla fine del decennio (e spina nel fianco, da sinistra, del governo di Salvador Allende).
Il suo cadavere fu gettato, nella notte tra il 2 e il 3 novembre del 1974, nel cortile della sede diplomatica attraverso il muro di cinta dalla strada che costeggiava la residenza. Il regime golpista contestò la versione fornita dal nostro incaricato d’affari, e fatta propria dal governo italiano, sostenendo che la mirista già si trovava lì al momento della morte.
La stampa cilena, asservita e megafono del regime, sostenne la tesi dell’estraneità dei militari, formulando varie ipotesi, tra cui quella dell’omicidio a sfondo passionale. In realtà, era stata torturata e uccisa e, poi, scaraventata priva di vita nel recinto della nostra rappresentanza dagli sgherri di Augusto Pinochet.
La reazione italiana
Fu il momento più drammatico dell’affaire riguardante i tanti cileni e cilene che, all’indomani del golpe e in fuga dalla repressione della dittatura, si erano rifugiati nelle ambasciate di mezzo mondo, tra cui quella italiana. Subito dopo il colpo di stato, infatti, e in assenza dell’ambasciatore Norberto Behman D’Elmo, che l’11 settembre 1973 si trovava a Roma, centinaia di cileni furono accolti dai rappresentanti diplomatici italiani Piero De Masi, Emilio Barbarani, Tomaso de Vergottini e altri.
Sino ai primi mesi del 1975, quando la vicenda si concluse, l’ambasciata italiana avrebbe dato asilo a centinaia di persone, molte delle quali poi giunti in Italia.
Quella dell’accoglienza dei rifugiati è una delle pagine più edificanti della nostra diplomazia e del contributo offerto dall’Italia al “Cile democratico”. Una pagina che dovrebbe indurci a riflettere sul presente.
Tuttavia, non sarebbero mancati altri momenti di frizione con il governo dittatoriale, come, ad esempio, la decisione dell’esecutivo italiano, guidato allora da Mariano Rumor, di non riconoscere la giunta militare, decisione accolta con esplicito disappunto dalla collettività italiana in Cile.
Quest’ultima inviò finanche una lettera al ministro degli Esteri Aldo Moro, esprimendo “amarezza” e proponendo di normalizzare i rapporti con la giunta militare, «indipendentemente dalla politica e dalla ideologia».
La linea della fermezza scelta dall’esecutivo italiano fu dovuta a calcoli politici contingenti e alla necessità di salvaguardare la stabilità della maggioranza di governo. Nonché al profondo sdegno e alle manifestazioni di protesta che in Italia seguirono alla morte di Allende. D’altronde, nell’interpellanza sui “tragici fatti del Cile” che si tenne alla Camera dei deputati il 26 settembre 1973, tutte le forze politiche condannarono il golpe, ad eccezione del Msi, che considerò necessaria la presa del potere dei militari al fine di pacificare il paese, nonostante il “sacrificio della libertà”, e accusò la Dc di opportunismo e di aver “rinnegato” i democristiani cileni.
La strategia dell’attesa
Moro non poté, quindi, far altro che adeguarsi al clima politico dei giorni successivi al colpo di stato. Nondimeno, egli era consapevole di una diffusa preferenza, all’interno del suo partito e di altre forze di maggioranza, per la prosecuzione di regolari relazioni con il Cile dei militari, al fine di tutelare gli interessi italiani e della nostra collettività lì residente. Bisognava solo far passare la burrasca. Tale preferenza incontrò, però, la netta contrarietà dei socialisti, in particolare del segretario Francesco De Martino, che minacciarono di far cadere l’esecutivo in caso di riconoscimento della giunta.
Moro scelse una strategia di “attesa”, confidando che si potesse procedere a una iniziativa congiunta in ambito Cee. Alcuni partner comunitari avevano, difatti, già deciso di mantenere le relazioni diplomatiche sulla base del principio che ad essere riconosciuti sono gli stati e non i governi incaricati di volta in volta di guidarli. Non accadde nulla e le relazioni bilaterali rimasero di fatto congelate sino al plebiscito cileno dell’ottobre del 1988, quando il ministro degli Esteri Giulio Andreotti nominò il nuovo ambasciatore d’Italia in Cile.
Va, però, anche ricordato che questa condotta diplomatica non trovò un corrispettivo sul versante degli scambi commerciali. L’esecutivo italiano mantenne, infatti, sempre distanti il piano politico-ideologico da quello economico. Le tensioni originate dalla questione dei rifugiati e il mancato riconoscimento della giunta militare non impedirono, così, ai due paesi di continuare ad avere normali relazioni economiche e, a quello italiano, di dare, nei fatti, un sostegno importante alla dittatura in una fase di isolamento internazionale.
Modalità provvisoria
Fatto sta che dopo il biennio 1973-75 i rapporti italo-cileni entrarono in “modalità provvisoria”, e, nonostante la prosecuzione delle mobilitazioni nella penisola in favore del Cile democratico, si dovette attendere circa un decennio prima che l’Italia potesse iniziare a offrire un fattivo contributo per il ripristino della democrazia.
L’attivismo italiano, teso a sostenere le opposizioni al regime, i loro mezzi di comunicazione e i sindacati, si registrò, difatti, in un’altra congiuntura politica, quella degli ultimi sussulti/rantoli della Prima Repubblica. Contraddizioni di un paese avvitato su sé stesso a causa del dilagante malcostume politico, della corruzione e dello sperpero di denaro pubblico, avviato quindi verso una crisi sistematica ma ancora in grado di incidere, meritoriamente, sul piano internazionale.
L’impegno italiano era, tuttavia, in linea con gli indirizzi prevalenti a livello continentale: pur con sfumature diverse, infatti, tutti i paesi europei negli anni Ottanta ribadivano il loro rifiuto per la dittatura di Pinochet e sostenevano l’opposizione cilena. Decisivo fu pure il cambio di orientamento dell’amministrazione di Ronald Reagan che sostenne il dialogo, nel quadro della Costituzione del 1980, tra le forze di opposizione, con dell’esclusione dei comunisti, e il governo, per ristabilire nel paese la democrazia e lo stato di diritto.
Il vento sembrava aver cambiato finalmente direzione, nonostante gli ultimi rigurgiti autoritari ed episodi che avrebbero potuto rallentare il corso della storia. Come quando, nei primi giorni di aprile del 1987, basandosi sulla tesi della reversibilità dei regimi autoritari, Giovanni Paolo II si recò in Cile, finendo per offrire una importante legittimazione a Pinochet.
L’opposizione dall’Italia
Tuttavia, questo viaggio, immortalato da una discutibile foto del pontefice con il dittatore cileno sul balcone del palazzo presidenziale, non riuscì ad allungare le sorti del regime. E i vari attori italiani che, di concerto con quelli cileni, si battevano per la fine del regime militare, ripresero fiato. In prima fila, con il loro impegno in loco, ci furono i sindacati, in particolare la Cisl guidata allora da Franco Marini, e le tante realtà dell’associazionismo italiano e delle ong.
Fondamentale fu, poi, il lavoro sotterraneo di personalità politiche poco note, come Gilberto Bonalumi, prima e durante il suo incarico di sottosegretario agli Esteri, e di figure di spicco, in particolar modo Bettino Craxi e Giulio Andreotti. Il primo, presidente del Consiglio dal 1983 al 1987,non fece mai mancare il sostegno, politico e materiale, suo e del partito socialista alle forze di opposizione, non esitando a ribadire dinanzi al Congresso degli Stati Uniti, in occasione di una sua visita ufficiale a Washington, l’invito ai militari cileni a farsi da parte per permettere il ripristino delle regole democratiche.
Ma fu, soprattutto, Andreotti a premere sul tasto dell’acceleratore e ad attivarsi in prima persona. Determinante fu, infatti, il suo convincimento, alla metà degli anni Ottanta, che fosse giunto il momento per l’Italia di dare un contributo concreto all’opposizione cilena.
Il sostegno italiano al Cile proseguì per gran parte del primo decennio democratico. Poi la nazione andina fu derubricata a paese di secondo livello nell’agenda latinoamericana dell’Italia. Come ha sottolineato Mattarella due mesi fa, le due nazioni possono vantare una storia condivisa. Tuttavia, il disinteresse palesato oggi dall'Italia rientra in una più ampia incapacità del nostro paese di rivestire nuovamente un ruolo da protagonista nella regione latinoamericana.
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