I paesi più grandi del continente soffrono per la congiuntura, e l’idea di una moneta unica appare un miraggio. Per investire in Africa occorre guardare alla politica monetaria. C’è anche un’opportunità per le Pmi italiane
Grande esperto di moneta unica africana, l’economista togolese Kako Nubukpo è delusissimo: «Siamo ormai nel 2024 e nessuno dei paesi della zona soddisfa i criteri per il passaggio a una moneta unica. L’idea di giungere a questo risultato nel 2027 non è più credibile». C’è mancanza di volontà politica, ma anche la congiuntura non aiuta: lira, sterlina egiziana, naira nigeriano, rand sudafricano, cedi ghanese, franco congolese o scellino keniota: tutte le valute nazionali africane si stanno svalutando a causa dell’inflazione globale. Jeune Afrique, la storica rivista sul continente in lingua francese, ha fatto sul tema un lungo e dettagliato reportage in cinque puntate, allo scopo di spiegare il momento attuale della politica monetaria e finanziaria africana.
Negli ultimi mesi quasi tutte le valute del continente africano hanno toccato i minimi storici rispetto al dollaro americano o all’euro, sconsigliando di prendere iniziative troppo ambiziose. Il calo degli investimenti ha fatto il resto. Di conseguenza il franco Cfa (comunità finanziaria africana), quel tanto vituperato “franco coloniale” legato prima al franco francese e ora all’euro, ha dimostrato la sua resilienza, dal momento che non soffre delle medesime oscillazioni, ma anzi offre un’area di stabilità monetaria a chi lo ha adottato.
Com’è noto, la crisi del Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno portato alla riduzione delle catene di approvvigionamento e spinto al rialzo l’inflazione globale. Per limitare il conseguente aumento dei prezzi, la Federal Reserve americana e la Banca centrale europea hanno aumentato i tassi di interesse con il contraccolpo di indebolire le valute africane. A inizio aprile ci volevano 1.267 naira nigeriane per acquistare un dollaro, rispetto alle 600 del giugno 2023 e alle 450 di un anno prima.
Di conseguenza, l’economia nigeriana sta affondando e la popolazione diventa sempre più povera: il salario minimo mensile è fermo a 30.000 naira, ovvero 22 dollari, rispetto ai circa 60 dollari di un anno fa. Le probabilità di uno scenario simile a quello che vive lo Zimbabwe (che assomiglia alla storica inflazione della Repubblica di Weimar), dove si stampano banconote da milioni e miliardi (l’inflazione ha raggiunto il 2.200.000 per cento su base annua), sta diventando uno spauracchio per tutti.
A confronto i paesi della zona del franco Cfa in Africa occidentale e centrale sono isole di stabilità monetaria, e ciò attira gli investimenti che sempre si spostano verso le aree più remunerative e sicure.
Molti paesi sono privi di valuta estera, che scompare del tutto: il Malawi ne soffre da almeno due anni, e ora la Nigeria sta facendo la stessa fine. Per risolvere la cronica carenza di valuta forte le economie africane dovrebbero diversificare la propria economia e le proprie esportazioni, ad esempio iniziando programmi di trasformazione industriale in loco.
Economia estrattiva
Troppi paesi africani dipendono ancora quasi completamente dai prezzi delle materie prime e da un’economia estrattiva o dall’esportazione di prodotti grezzi e non lavorati.
In altre parole non esiste alcuna forma di controllo sulle proprie risorse, né i paesi africani riescono a contribuire in pur minima parte a decidere prezzi e ricavi. Mancano del tutto le catene del valore: il Piano Mattei vorrebbe contribuire a invertire tale cattiva abitudine, ma non può rischiare di impantanarsi da subito con economie troppo deboli e monetariamente inaffidabili. Per questo per ora si preferisce cooperare con paesi della zona franco Cfa (come la Costa d’Avorio dove a breve si recherà una importante missione di sistema), fatti salvi gli stati arabi rivieraschi. Sostenere questi ultimi è una priorità a causa dei rischi migratori, ma anche della stabilità politica: l’Egitto, ad esempio, già soffre della riduzione degli introiti del canale di Suez, poco frequentato a causa delle minacce degli Houthi sullo stretto di Bab el Mandeb.
Anche al Cairo oggi l’inflazione morde: per ottenere un dollaro occorrono 49 lire sterline egiziane rispetto alle circa 30 di un mese fa.
Alcuni paesi decidono per la dollarizzazione, come avviene in alcuni stati latinoamericani: lo Zimbabwe lo sta facendo, la Repubblica Democratica del Congo è già de facto dollarizzata (gli stipendi sono il dollari Usa).
Le giunte militari saheliane di Mali, Niger e Burkina Faso avevano avvisato della loro intenzione di uscire dal franco Cfa per creare una loro moneta unica. Anche il Senegal del neopresidente Bassirou Diomaye Faye aveva annunciato un provvedimento simile. Si pensa che tali programmi saranno rinviati a data da destinarsi per non peggiorare una congiuntura economica già infragilita.
Anche per gli stati dell’Ecowas c’era l’idea di una nuova moneta – l’Eco – ma ormai non se ne parla più, malgrado le dichiarazioni congiunte Macron-Ouattara del 2019. All’Eco doveva aderire anche la Nigeria, ma ora nessuno più se lo augura. Nemmeno il nuovo calendario dell’entrata in vigore della nuova moneta nel 2027 sarà rispettato, come avverte Nobukpo. Sul progetto non c’è più il consenso di qualche anno fa, e l’uscita dall’Ecowas dei tre stati saheliani ha bloccato quasi tutte le iniziative della regione dell’Africa occidentale.
Regione centrale
Non va meglio la regione dell’Africa centrale, alle prese con la crisi del Ciad e del Sudan.
Intanto il Tesoro francese continua a offrire la sua parità di “garanzia di ultima istanza” con il mantenimento dell’Euro come moneta di riferimento, e il franco Cfa continua a circolare senza problemi. Secondo Jeune Afrique l’attuale contesto «difficilmente favorisce riforme monetarie di vasta portata», con i livelli del debito pubblico che si sono messi a risalire e la guerra in Ucraina che ha innescato l’inflazione galoppante.
Siamo lontani dal soddisfare i «criteri di convergenza», e cioè un deficit di bilancio inferiore al 3 per cento del Pil, un’inflazione limitata al 10 per cento e un debito inferiore al 70 per cento del Pil.
Sono criteri già adottati per l’euro. Inoltre una valuta comune significa condividere le riserve valutarie, ciò che richiederebbe una forte solidarietà economica e politica attualmente inesistente.
Opportunità italiane
Ora si discute dell’adozione non di una moneta unica, ma di una moneta comune: ognuno potrebbe avere la propria valuta, ma i termini di cambio sarebbero fissi o flessibili sulla base di un paniere di valute rappresentative (euro, dollaro, yuan ecc.): una specie di serpente monetario.
Resta aperto il solito problema della Nigeria: Abuja dentro o fuori? Si tratta dell’economia più grande, ma anche che mette paura per la sua volatilità (la Nigeria svaluta a ripetizione e stampa moneta a profusione). Di conseguenza diverse imprese straniere e multinazionali hanno lasciato la Nigeria dopo aver perso parecchi soldi nelle tempeste monetarie in corso.
Restano quelle presenti nell’area del franco Cfa, ma ciò per ora non spinge a un aumento degli investimenti perché quest’ultimo dipende anche dall’ampiezza dei mercati: i paesi del franco Cfa sono piccoli o al massimo medi.
Si tratta tuttavia di un terreno buono per le Pmi italiane che hanno la dimensione giusta per diffondere la propria influenza e operatività in tutta la subregione. È uno degli obiettivi del Piano Mattei. Nigeria, Egitto, Kenya e Sudafrica restano le economie più importanti, ma la loro precarietà monetaria per ora rende tali paesi poco affidabili.
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