Vogliono convincerci che il ripudio dei conflitti non sia più il cardine della nostra politica estera. Ma ecco cosa dicono i numeri: un carro armato vale quanto lo stipendio di 215 medici all’anno
L’accelerazione impressa da Trump al riarmo europeo è evidente, ma le intenzioni erano già tutte schierate. In questi anni siamo spesso rimasti impressionati dal coro di media e intellettuali che sembrano riproporci con toni spaventosi e sinceramente poche argomentazioni un nuovo e potenzialmente tragico interventismo allo scopo di archiviare l’epoca costituzionale così come tracciata e voluta con l’articolo 11 della Carta.
La deriva comincia dieci anni fa: quindi prima di questo governo e di Crosetto, anche se l’attuale ministro ne è stato un protagonista visto che dal 2014 è stato presidente di Aiad, la Federazione Aziende Italiane per l'Aerospazio, la difesa e la sicurezza (e senior Advisor di Leonardo) fino alla carica attuale.
Nel 2016, racconta il podcast “Ho detto ripudia”, il budget della difesa non arrivava a 20 miliardi mentre cinque bilanci fa cominciava a lievitare a 24 miliardi e con la guerra contro l’Ucraina arriva al record storico di 32 miliardi di quest’anno (dati Osservatorio sulle spese militari Milex, la fonte più affidabile, come confermano le statistiche).
Un fiume di miliardi
Con ReArm Europe l’Italia dovrebbe raddoppiare il suo impegno per altri 30-35 miliardi in cinque anni e, sommando i prestiti comuni da finanziare per altri 18 miliardi, il conto impossibile per le casse italiane va a 50. Il governo chiede all’Europa di ricomprendere nel militare anche le spese per la sicurezza delle frontiere, ovvero del pattugliamento del Mediterraneo, compresi hotspot nazionali e quello in Albania che da solo vale poco meno di un miliardo nel complesso riducendo, così, la spesa futura e dando una benedizione comunitaria all'equivalenza tra nemico invasore e immigrato dal Sud del mondo.
Intanto spendiamo, ad esempio, in carri armati: 140 pezzi da combattimento e altrettanti di supporto e trasporto truppe come dice l’accordo industriale tra Leonardo e il gigante tedesco delle armi RheinMetall, per un totale di 23 miliardi euro.
Ma perché compriamo carri armati e mezzi cingolati per la fanteria? In parlamento il governo dice che gli attuali mezzi dell'esercito non sono sufficienti per «natura delle attuali minacce e dalle peculiari esigenze del moderno campo di battaglia».
Quale campo di battaglia? L’esempio è ovviamente l’Ucraina. Intanto, come ricorda il podcast “Ho detto ripudia”, nella sanità pubblica sono stati tagliati in 10 anni più di 36 miliardi e sono andati in fumo 43mila posti di lavoro, riducendo i posti letto negli ospedali a 3,2 ogni mille abitanti contro una media europea di 5. Così come si tagliano sistematicamente i fondi per gli enti locali, l’università, la scuola… È la società civile che sostiene questo sforzo bellico e più che davanti a noi, la minaccia è sulle nostre spalle.
Le alternative sono chiare: un carro armato di nuova generazione vale quanto lo stipendio di 215 medici all’anno. E i 140 carri armati che il parlamento sta autorizzando valgono come formare più di 60 mila nuovi medici, in quindici anni, spese universitarie e di specializzazione comprese. Come proponeva una campagna di Sbilanciamoci e Rete Pace e disarmo: volete una fregata missilistica modello Fremm oppure l’assunzione e il pagamento di 1200 infermieri per dieci anni? Un blindato classe centauro per la fanteria leggera dotato di cannoncino o 2800 borse di studio? Il governo e la maggioranza (ma non solo) hanno scelto le armi.
Come far digerire all’opinione pubblica un tale spostamento di risorse pubbliche verso il militare? Con la propaganda e la paura. Lo fanno i politici europei soprattutto.
Un esempio su tutti, il presidente polacco Tusk: «So che sembra devastante, soprattutto per le persone della generazione più giovane, ma dobbiamo abituarci mentalmente all'arrivo di una nuova era: l’era prebellica. La guerra è una minaccia reale e l'Europa non è pronta».
Avanti i generali
In Italia, dove la popolazione ha un tasso di avversione alla guerra e all’invio di propri soldati tra i più alti d’Europa, i politici mandano avanti i generali. Da mesi su diversi quotidiani nazionali vanno di moda le interviste alle stellette con un florilegio di letture che puntano a cambiare la sostanza pacifista della nostra nazione. Partiamo dell’ammiraglio Credendino, capo di Stato Maggiore della Marina che per due volte ci comunica che le nostre navi stanno sparando come mai: «Abbiamo fatto fuoco contro bersagli nemici per la prima volta dal 1945, siamo pronti a tutto».
Per poi lamentarsi della mancanza di risorse: «Questo sforzo può durare per 3-4 anni, non oltre». Ma dove spariamo? Nel Mar Rosso, nell’ambito della missione Prosperity Guardian (custode della prosperità) che protegge le navi commerciali occidentali dagli attacchi delle milizie yemenite Houthi. Difendiamo la libertà di commercio, quindi. Ma la Costituzione lo permette?
Guerra delle menti
Per non essere da meno il capo di stato maggiore dell’esercito Carmine Masiello (quello dei 40mila soldati in più), dice: «Mai avremmo pensato di tornare alle trincee, noi che ci eravamo formati alle missioni di mantenimento della pace. Abbiamo dovuto rivalutare l’uso dei corazzati e dell’artiglieria». Il generale ci spiega che la prossima guerra sarà anche cibernetica, spaziale, sotterranea e pure cognitiva: «La mente è un campo di battaglia. Anche su questo abbiamo avviato un percorso di formazione per essere pronti a contrastare questo fenomeno». In che senso, generale? La guerra delle menti?
È in atto una manipolazione per caricarci sulle spalle costi e rischi di una militarizzazione che fa solo male alla democrazia e ai diritti. D’altronde da un mese attendiamo che il governo ci dica quale apparato dello Stato abbia usato illegalmente un software di spionaggio militare contro attivisti dei diritti umani e giornalisti. Ma tace preferendo invocare nuove minacce e nemici; finché i nemici non diventeranno proprio gli oppositori, i dissidenti, i pacifisti.
Claudio Jampaglia, giornalista, e Giuseppe Mazza, docente di comunicazione, sono gli autori del podcast “Ho detto R1PUD1A”, realizzato in collaborazione con Emergency. Da ascoltare su https://www.ripudia.it/podcast/
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