- La chiusura del porto di Odessa agli interessi russi da parte dell’Ucraina costringe questa replica del mondo sovietico anni Settanta a riaprire il dialogo con la Moldavia.
- Il ruolo di uno dei più grandi depositi di munizioni della storia e l’importanza della lingua per i russofoni al di là del fiume Nistro.
- La squadra di calcio ora ha aderito alla lega moldava e a Chisinau il governo filo-europeo sogna di ricucire la ferita aperta dal ‘92.
Ci sono nazioni vere che sembrano finte, e nazioni finte che sembrano vere. La Transnistria, ufficialmente chiamata Repubblica moldava di Piednistrov, appartiene al secondo gruppo. Da quasi trent’anni ha tutte le apparenze della sovranità che di solito associamo a paesi solidamente reali: una capitale, un inno, una bandiera (e che bandiera), un esercito, una moneta, un governo, vari ambasciatori stranieri accreditati, e propri ambasciatori accreditati all’estero, una forte squadra di calcio frequentatrice abituale della Uefa Champions League (con tanto di ben pagati giocatori brasiliani). E poi tv e giornali, ministeri, francobolli, musei e banca centrale.
Sembra ancor più vera perché, a partire dal 1992, invece di creare da zero una propria, nuova identità, la Transnistria ha semplicemente resuscitato – in miniatura - una nazione che aveva appena cessato di esistere: e non una nazione qualsiasi, ma niente di meno che la grande e in un certo senso gloriosa Unione sovietica. Di cui, stando ai simboli, la Transnistria è l’erede diretta. Tra falci e martelli, statue di Lenin, busti di Stalin, milizie di una polizia che si chiama Kgb, celebrazioni della rivoluzione del 1917, nella capitale Tiraspol sembra di essere nell’Urss anni Settanta. Persino il parlamento, dove si dibatte in russo (ma si dibatte poco perché sono quasi tutti sempre d’accordo), si chiama “Casa dei Soviet”. C’è un solo, piccolo problema: se si consulta un atlante o se si chiede all’Onu, la Transnistria risulta non essere uno stato indipendente, ma solo la provincia autonoma di tutt’altro stato, che invece il passato sovietico l’ha seppellito da decenni. La Moldavia.
Storia di un’anomalia
La storia di questa anomalia è il riassunto di tutte le contraddizioni che hanno segnato la fine dell’Unione sovietica, ma anche il riassunto di tutte le strategie attuali della Russia di Putin. Partiamo dal nome: Transnistria significa al di là del Dnestr (o Nistro), che nasce nei Carpazi ucraini e sfocia in un grande estuario non lontano da Odessa. Insomma, un’autostrada liquida che taglia in due questa regione, dividendo mondo slavo da un lato e mondo latino dall’altro. Anche per i romani era un confine naturale: al di qua la Dacia latinizzata e colonizzata, al di là la meno docile Asia in mano ai nomadi sciti, feroci cavalieri iranici.
Sotto l’Urss questo confine storico aveva finito per perdere d’importanza, perché tutto era stato assorbito all’interno della “cortina di ferro”. Quando la Moldavia era una repubblica socialista sovietica, il fiume Nistro semplicemente divideva l’Urss dalla Romania, che era alleata di Mosca. Quindi più che dividere, univa. Ma dopo la caduta del Muro di Berlino, e quando Boris Yeltsin aveva dissolto l’Urss, la Moldavia ne aveva approfittato per dichiarare l’indipendenza da Mosca. Così nel 1991, le rive del Nistro erano tornate a dividere simbolicamente due mondi, est e ovest, che si guardavano in cagnesco. Due anni dopo, infatti, i russofoni al di là del fiume avevano lanciato una breve ma sanguinosa guerra di secessione dalla nuova Moldavia. Per impedire di dover aderire a una nazione dove si parla rumeno e dove l’alfabeto cirillico era stato abolito, la Transnistria si era rivolta al Grande Fratello moscovita, che aveva inviato armi e soldati sufficienti a garantirne la secessione.
Una mini Urss
È una parte del mondo affascinante, anche solo per le intricate vicende storiche e i nomi così evocativi: Bessarabia, Valacchia, Transilvania, Bucovina, ottomani, tatari, minoranze armene, le gesta di Ștefan cel Mare. Da ricordare soprattutto la Bessarabia, regione che gli ottomani avevano ceduto agli zar, poi i russi avevano sviluppato industrialmente e che era finita a far parte del vecchio Regno di Romania, per poi ripassare nel 1940 sotto Mosca grazie allo sciagurato patto Molotov-Ribbentrop.
Oggi, per tagliare la testa al toro e al puzzle, la Russia ha piazzato dei “caschi blu” al confine tra Transnistria e Moldavia, che in teoria osservano il cessate il fuoco in vigore dal 1992 ma in realtà scoraggiano i governi di Chișinău dal riprendersi la regione secessionista. Sono tra i soldati russi armati più vicini all’occidente, in checkpoint cupi che ricordano la vecchia Berlino.
In tutto questo, il mezzo milione di abitanti della Transnistria è riuscito a ricreare una propria mini-Urss. Uno stato riconosciuto ufficialmente solo da altre nazioni secessioniste (Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh, persino con scambio di mini-ambasciate), ma di fatto protetto dalla Russia. Che proprio nel villaggio di Cobasna aveva il più grande deposito federale di munizioni e uno dei più grandi al mondo (ancora attivo, a quanto pare, e ancora in mani russo-transnistre).
Sheriff
Molti pensano che i veri padroni della Transnistria non siano al Cremlino, ma siano gli uomini d’affari che stanno dietro la Sheriff. Questa holding – la stessa che possiede l’omonima squadra di calcio – controlla anche telefonia, supermercati, tv, distillerie, stazioni di servizio, banche. Nonostante il nome che richiama legge e legalità, la reputazione di Sheriff è legata ad accuse di contrabbando e commercio di armi e di chissà cos’altro, che gode della vicinanza di Odessa, sul Mar Nero. Odessa è un luogo da romanzo: un bellissimo porto da secoli al centro di traffici internazionali e oggi in territorio ucraino, che nel corso della storia ne ha viste di tutti i colori.
In questo caso, il meccanismo sembrava chiaro: a capo della Transnistria c’era il baffuto Igor’ Smirnov, ex metalmeccanico e quasi sosia di Lech Wałęsa ma grande fanatico dell’Urss che il caso aveva proiettato a capo della piccola repubblica anti-Moldavia. Il figlio di Igor era il capo delle dogane, che in Transnistria è come essere il capo del ministero dell’Economia. E le dogane, guarda caso, concedevano dazi di favore alle merci di Sheriff. E Sheriff garantiva la rielezione di Smirnov.
Dietro Sheriff c’è il fondatore Viktor Gušan, ex funzionario del Kgb sovietico. Vive tra Odessa e Kiev, va allo stadio (gli è costato 200 milioni di euro) e fa la formazione della squadra come un Berlusconi vecchio stile, fuma sigari come un Gordon Gekko da Wall Street, è affabile e gentile, e gioca un ruolo chiave in quella “terra di mezzo” che di comunista ha solo gli orpelli, ma che ha come modello l’oligarchia proto-capitalistica. Gušan ha più volte spiegato: «Nessuno riconosce la Transnistria, per fare affari dobbiamo arrangiarci. Non è facile, quindi non fateci troppe domande».
Un impero in pericolo
Ogni tanto Vladimir Putin cita la piccola Transnistria come esempio di patriottismo russofilo, di eroica sfida del Davide slavo al Golia dell’egemonismo occidentale, ma gli analisti del puzzle dicono che la Transnistria non è più la enclave del contrabbando come negli anni Novanta. Ora la repubblica ribelle vuole vestire il doppiopetto della rispettabilità. Si dice persino che gli oligarchi di Tiraspol stiano considerando il salto della quaglia: il salto verso occidente, via Moldavia e Romania (che della Moldavia è cugina stretta).
Far parte di una non-nazione, ormai, costa troppo in termini di opportunità mancate.
Dopo quello che è accaduto nel Donbass ucraino e in Crimea, infatti, l’Ucraina ha bloccato l’ingresso dei cittadini russi provenienti dalla Transnistria (dove molti hanno il doppio passaporto) e soprattutto ha rallentato i flussi commerciali, rendendo il porto di Odessa quasi irraggiungibile per i misteriosi traffici che passano dal fiume Dnepr. L’impero economico della Sheriff, quindi, è in pericolo. Anche la squadra di calcio vince di meno. Nel soviet supremo di Tiraspol nessuno mette in discussione la falce e il martello (la bandiera della Transnistria è l’ultima al mondo che conserva questo storico simbolo) o le statue di Lenin, ma l’aria è cambiata. Lo si vede anche in campo: dopo aver vinto lo scudetto moldavo per anni, ma senza ricoprire un ruolo ufficiale in quel paese “straniero”, ormai lo Sheriff fa parte ufficialmente della lega calcio moldava.
Le esigenze di business sono allineate con quelle della politica. In Moldavia la presidenza e il parlamento sono nelle mani della giovane Maia Sandu, ex economista della Banca mondiale e filo-europea (il predecessore era filo-Mosca). Il suo sogno è di rilanciare l’economia della nazione più povera d’Europa, e richiamare in patria i due milioni e mezzo di moldavi emigrati. Per i separati in casa al di là del fiume, ipotizza uno status autonomo con la lingua russa, (ri)eletta come una delle lingue ufficiali della regione. Nelle stanze della Sheriff questo progetto non dispiace. Lungo il fiume Nistro, forse, si sta riscrivendo la storia.
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