I greci, che dei comportamenti umani hanno descritto (quasi) tutto, non per caso si erano inventati la figura di due gemelle complementari, Mnemosine dea della Memoria, e Lete dea dell'Oblìo. Come a suggerire che i due atteggiamenti vanno calibrati e un eccesso di entrambi sarebbe deleterio. Lete è anche il fiume nel quale ci si immerge per dimenticare e rinascere a nuova vita.
Platone nella Repubblica: «Le anime si avviarono verso la pianura del Lete, si accamparono presso il fiume Amelete, furono costrette a bere e via via chi beveva si dimenticava ogni cosa».
Analogamente Virgilio nell’Eneide. E Dante nella Commedia si immagina il fiume che purifica dalle colpe terrene le anime del Purgatorio per salire in Paradiso. Baudelaire scrive una poesia in cui dentro i baci di lei «scorre l'acqua del Lete»: si conosce la sua confidenza con l'assenzio. Oggi Lete è un'acqua minerale, segno dei tempi.
Il breve excursus letterario per dimostrare come il tema del giusto uso della memoria è antico. E torna sempre d'attualità nei momenti in cui la cronaca incrocia la storia, la chiama a testimone per dirimere ragioni e torti, viene recuperata à la carte a seconda di quanto serve per giustificare il proprio diritto.
È successo tra russi e ucraini, succede tra palestinesi e israeliani. Fare esercizio di memoria è sempre bene, è l'opinione diffusa del nostro tempo. Ma è davvero così?
Se lo è chiesto, per una discreta parte della sua produzione intellettuale, filosofica e letteraria Tzvetan Todorov (1939-2017), bulgaro naturalizzato francese, tra i massimi pensatori dall'ultimo dopoguerra a oggi.
Approdando a una conclusione provocatoria per la quale dalla fine del Novecento noi europei siamo ossessionati dal culto della memoria fino a deragliare ne Gli abusi della memoria (titolo di un suo libro per Meltemi). Aveva accostato il tema anche in Memoria del male, tentazione del bene, un manuale per usare nel modo migliore storia e memoria.
Nell'ultima edizione di Bookcity a Milano in un incontro sul libro di Marco Bechis con le tavole di Alfredo Chiappori (Cile 1973, il golpe contro Allende nelle tavole di Punto final, La Nave di Teseo), si è alzato dalla platea un ex desaparecido argentino, Louis, per sottolineare la necessità di continuare ad essere testimoni e guardiani della memoria.
Negazionismo e memoria “buona”
Tanto più adesso che ha vinto le elezioni un presidente di estrema destra, Javier Milei, se non negazionista al minimo riduzionista delle malefatte della dittatura con la quale ha avuto un contiguità se non durante (era troppo giovane) nel dopo quando molti dei carnefici hanno continuato a svolgere un ruolo nella società, rimanendo nella maggior parte dei casi impuniti.
Louis ha ragione, ovviamente, invoca quella che Todorov definisce la «memoria buona» che archivia senza cancellare, alla quale il filosofo contrappone tuttavia la «memoria cattiva», quella che incatena al passato, impedisce di aprirsi orizzonti verso il futuro perché perpetua il meccanismo della rivincita e della vendetta.
Per concludere: «Spesso i popoli per riuscire ad andare avanti hanno più bisogno di dimenticare che di ricordare». E si fa alcune domande retoriche con una valenza tremendamente attuale: «Se il richiamo al passato conduce alla morte come non preferirgli l'oblìo? Non hanno avuto ragione quegli israeliani e palestinesi che, riuniti attorno a uno stesso tavolo a Bruxelles nel marzo 1988 hanno espresso la convinzione che per semplicemente incominciare a parlare bisogna mettere il passato tra parentesi? Se il passato deve regolare il presente chi, fra ebrei, cristiani o musulmani rinuncerà alle proprie pretese territoriali su Gerusalemme?».
Le domande erano correttamente poste, le risposte sbagliate. Gli ebrei ricordano i pogrom, le aggressioni subite dagli Stati arabi, i kamikaze dell'Intifada, il grumo di Shoah del 7 ottobre scorso. I palestinesi la “Nakba”, la catastrofe dell'esodo dopo la guerra persa nel 1948, l'occupazione della terra che sarebbe loro per il piano di partizione delle Nazioni Unite, i bombardamenti sulla popolazione civile, comprese quelle dei nostri giorni destinate a far aumentare il numero dei ragazzi futuri combattenti. E' la vendetta.
La sfiducia reciproca che si aggrava sino alla conclusione dell'impossibilità dell'unica soluzione, due popoli per due Stati confinanti.
Le analogie
Ogni paragone è zoppo ma la persistenza dei guai della memoria cattiva è analoga in diverse latitudini. Vladimir Putin invade l'Ucraina usando come alibi il timore di un ritorno del nazismo, disseppellisce Stepan Andrijovic Bandera, il controverso nazionalista ucraino collaborazionista di Hitler, cerca di convincere il suo popolo che è in pericolo lo spazio vitale russo a causa del fatto che a Kiev sono comparse in piazza alcune bandiere con l'immagine di Bandera (scusate il bisticcio di parole). Rievoca le origini russe nell'attuale capitale ucraina, il Dniepr come sacro fiume della mitologia russa.
In soli cento giorni, nel 1994, un milione di persone vengono sterminate in Ruanda. Gli hutu ammazzano i tutsi (e gli hutu moderati) per l'odio razziale coltivato nei decenni in cui la minoranza tutsi rappresentava l'élite sociale e culturale del Paese.
Negli stessi Anni Novanta la dissoluzione della Jugoslavia poggiò le sue basi di consenso sull'uso ultra-politico della storia. Nell'ultimo anni prima che tuonasse il cannone le televisioni di Zagabria mandavano in onda praticamente ogni giorno documentari sui massacri dei cetnici serbi contro la popolazione croata.
E all'opposto a Belgrado la propaganda diffondeva carneficine di ustascia croati contro i serbi. Erano fatti di quasi 50 anni prima. Ma di colpo tornarono d'attualità parole antiche. I croati erano senza distinzioni “ustascia”, i serbi “cetnici”. E i musulmani di Bosnia “balje”, turchi, eredi degli oppressori della Sublime Porta cacciati durante le guerre balcaniche che precedettero la Prima guerra mondiale.
In aggiunta, i serbi ripescarono i miti della battaglia di Kosovo Polje del 1389, la gloriosa sconfitta contro il sultano, base dell'epica del popolo celeste sacrificato per la salvezza dell'Europa nel Kosovo culla del primo patriarcato ortodosso, della valle dei monasteri custodi della fede ortodossa.
Ancora oggi la Serbia non riconosce l'indipendenza di quella terra per loro santa e nell'area si vivacchia nel limbo della non pace-non guerra. E vale la pena di ricordare la massima di Winston Churchill che conferma un'attitudine antica: «I Balcani producono più storia di quanta ne possono consumare». Anche una frase di Marco Pannella: «Se invece dei reciproci massacri le televisioni delle Repubbliche ex Jugoslave avessero mandato immagini di matrimoni misti non ci sarebbero stati i conflitti».
Un caso virtuoso
Esiste all'opposto un caso virtuoso. La fine dell'apartheid in Sudafrica. Alla riuscita della quale contribuì in modo corposo la Commissione per la verità e la riconciliazione, un organismo creato per dare la possibilità a chi si era macchiato di delitti o di crimini contro l'umanità di confessare in pubblico in cambio dell'immunità.
Oppressori e oppressi che, magari senza amarsi si ritrovano a costruire una verità condivisa impedendo per il futuro qualunque forma di negazionismo e favorendo l'inizio di un cammino comune.
Non va diversamente nel privato quanto al dualismo tra memoria e oblìo. Euphrosina Kersnovskaia, aristocratica russa di Odessa, in Quanto vale un uomo, la cronaca dei suoi dodici anni passati nei gulag in dodici quaderni con 680 disegni, alla fine scrive: «Mamma, mi avevi chiesto di scrivere la storia di questi tristi anni di apprendistato. Ho rispettato la tua ultima volontà. Ma non sarebbe stato meglio che tutto ciò cadesse nell'oblìo?».
Jorge Semprun, comunista sotto Franco in Spagna, arrestato dalla Gestapo in Francia, tradotto a Buchenwald, ne La scrittura o la vita confesserà di essere stato salvato dall'oblìo dell'esperienza nel campo di concentramento. E una ex desaparecida argentina, torturata nelle prigioni clandestine di Videla: «Di certe cose parlo solo con le mie piante».
Todorov distingue tra i genocidi compiuti in nome della nascita dell'uomo nuovo e dunque della cancellazione della memoria (Unione Sovietica, Cambogia) e quelli che invece poggiano le invereconde “ragioni” nel passato ai quali iscrive tutti quelli dagli Anni Settanta in poi.
E conclude: «Il passato non ha in se stesso la propria giustificazione, non secerne da solo alcun valore. Senso e valore vengono dai soggetti umani che li interrogano e li giudicano».
E ancora: «La sacralizzazione del passato lo priva di ogni efficacia sul presente; ma l'assimilazione pura e semplice del presente al passato ci acceca su entrambi, e provoca a sua volta l'ingiustizia. La via fra sacralizzazione e banalizzazione del passato può sembrare stretta, fra servire il proprio interesse e fare la morale agli altri; e tuttavia esiste».
Ciò che non esiste qui, ed ora, sono leader capaci come Mandela e de Klerk di individuare quella via stretta e percorrerla insieme. Senza dimenticare il passato ma senza farlo diventare un macigno sulle spalle dei contemporanei.
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