Il presidente, dopo Panama e Groenlandia, sui social “annette” Ottawa. Ma ora la priorità è stoppare la sentenza sul caso dei soldi alla pornostar
Dopo le minacciose dichiarazioni espansioniste su Canada, Panama e Groenlandia, Donald Trump si è dedicato ai nemici interni: i giudici. Martedì notte ha depositato una richiesta alla Corte Suprema con procedura d’urgenza di sospendere la sentenza del tribunale di New York sul caso dei soldi pagati per comprare il silenzio dell’ex pornostar Stormy Daniels, decisione prevista per venerdì. Il giudice, Juan Merchan, ha già fatto capire che non ci sarà una pena detentiva, ma il presidente vuole evitare la macchia della sentenza e tutti gli strascichi che questa potrebbe portare con sé.
I legali di Trump sostengono che, in qualità di presidente eletto, gode dell’immunità totale, convinzione che discende da un’interpretazione molto generosa di una sentenza della massima corte, che lo scorso anno ha stabilito l’immunità degli ex presidenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.
Si legge nella petizione: «Questa corte dovrebbe ordinare un fermo immediato del procedimento del tribunale di New York per prevenire una grave ingiustizia, un danno all’istituzione della presidenza e alle operazioni del governo federale».
Trump ha fatto ricorso alla Corte d’Appello di New York, ma non confidando nella tempestività delle decisioni si è anche appellato al tribunale più alto, che ha ordinato una risposta da parte degli inquirenti entro giovedì mattina. Segno che i giudici potrebbero muoversi rapidamente, prima della sentenza di venerdì.
Le conseguenze
Quali sono le possibili conseguenze di una sentenza che, in ogni caso, non prevedrà il carcere? Le elencano i legali di Trump nel ricorso: «La prospettiva di una sentenza a Trump poco prima del suo insediamento come 47esimo presidente agita lo spettro di altre possibili restrizioni della libertà, come quella di viaggiare, gli obblighi di firma e altro, tutte cose che sarebbero costituzionalmente intollerabili sotto la dottrina dell’immunità presidenziale. Qualunque disposizione sulla condanna risulterà in significativi effetti collaterali per il ricorrente, a prescindere dalla pena detentiva».
Insomma, Trump vuole assolutamente evitare che la sentenza venga pronunciata, e perciò si appella alla Corte Suprema e alla sua supermaggioranza conservatrice, che finora ha dato diverse soddisfazioni al presidente. Inoltre, la stessa corte nei prossimi giorni discuterà anche del bando a TikTok, decretato da una legge che entrerà in vigore il 19 gennaio se i giudici non sollevano obiezioni di costituzionalità e nel frattempo la compagnia cinese ByteDance non trova un acquirente approvato dagli Stati Uniti.
Anche su questo caso, Trump ha tentato un’operazione di influenza, chiedendo in modo del tutto irrituale di rimandare la decisione a dopo l’insediamento, in modo che possa occuparsi lui della cosa. Qualunque cosa voglia dire.
«Oh, Canada!»
Il trollaggio della conferenza stampa di martedì a Mar-a-Lago non poteva rimanere senza conseguenze. Trump aveva – fra le molte altre cose – rifiutato di escludere l’uso della forza per riprendersi la Groenlandia e Panama, e minacciato l’uso della «forza economica» per annettere anche il Canada. Tutti i leader coinvolti hanno rispedito al mittente le illazioni.
Il primo ministro della Groenlandia, Múte B. Egede, ha detto che «la Groenlandia è dei groenlandesi», il primo ministro (dimissionario) del Canada, Justin Trudeau, ha detto che una unificazione fra gli stati «ha le stesse possibilità che ha una palla di neve all’inferno», il presidente di Panama, José Raúl Mulino, ha spiegato che il Canale «non è negoziabile».
Le reazioni non hanno scalfito minimamente il presidente eletto, che ha continuato a battere sugli stessi tasti con ancora più forza. Sul suo social, Truth, ha mostrato la mappa di Canada e Stati Uniti senza confine, sormontati da una bandiera a stelle e strisce, con una intestazione cinematografica: «Oh, Canada!».
E ha attaccato nuovamente su dazi e deficit: «Gli Stati Uniti non possono più tollerare l’enorme deficit commerciale e i sussidi di cui il Canada ha bisogno per rimanere a galla. Trudeau lo sapeva, e si è dimesso. Se il Canada si unisse agli Stati Uniti non ci sarebbero dazi, le tasse scenderebbero e sarebbero TOTALMENTE AL SICURO dalla minaccia delle navi russe e cinesi che li circondano sempre. Insieme, che grande nazione saremmo!». I razionalizzatori di questi messaggi all’apparenza fantapolitici avvertono che queste fissazioni nascono dall’idea che gli alleati non trattino con sufficiente riconoscenza gli Stati Uniti. Tutti approfittano delle elargizioni americane, ma nessuno paga il dovuto, un po’ come gli europei che non fanno mai abbastanza per provvedere alla propria difesa perché tanto sanno che l’ombrello americano li proteggerà. Le iperboli groenlandesi andrebbero perciò lette in questa chiave.
Alcuni alleati di Trump della scuola “non va preso alla lettera” disegnano anche uno sfondo geopolitico su cui le sue parole, opportunamente filtrate e posizionate, non appaiono poi così balzane. La chiave è la difesa dell’emisfero occidentale dalle influenze della Cina, e in subordine della Russia.
Alexander Gray, che è stato capo di gabinetto del Consiglio per la sicurezza nazionale nel primo mandato di Trump, ha spiegato al Wall Street Journal il senso della sua ossessione: «Quello che Trump sta cercando di fare è rimettere il focus sui confini esterni dell’emisfero occidentale, nell’ottica di difenderli dai competitor globali». Letti in questa chiave- ha spiegato Gray – i messaggi-trollaggi di Trump non sono poi così al di fuori dei canoni della politica estera mainstream. Non li hanno interpretati così i paesi interessati, ma questa dissonanza interpretativa è esattamente quello che ci aspetta nei prossimi quattro anni.
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