Se altrove nel mondo politici e opinione pubblica si dividono, a Taiwan tifano tutti per Kamala Harris e fanno gli scongiuri affinché Donald Trump non rientri mai più alla Casa Bianca.

Il miliardario repubblicano negli ultimi giorni ha rilasciato una dichiarazione che ha suscitato sconcerto sull’isola che la Repubblica popolare cinese (Rpc) reclama come un suo territorio. “Ci hanno rubato la manifattura dei microchip, devono pagarci le armi che gli forniamo”: questo il succo della “sparata” di The Donald che ha fatto crollare il valore dei titoli della leader globale dei microprocessori Tsmc e fatto tremare le vene e i polsi del neoeletto presidente William Lai Ching-te.

«Noi (gli Stati Uniti, ndr) non siamo diversi da una compagnia assicurativa, ma Taiwan non ci dà nulla. Si sono presi quasi il 100 per cento del nostro business dei chip. Io penso che Taiwan dovrebbe pagarci per la difesa che le forniamo», ha sostenuto il candidato repubblicano alla presidenza in un’intervista pubblicata nei giorni scorsi da Bloomberg Businessweek.

Il presunto “furto” entra a pieno titolo nel campionario della post verità propalata da Trump. Si tratterebbe di quello avvenuto – a partire dagli anni Novanta, per effetto della globalizzazione neoliberista a guida Usa – dopo che gli Stati Uniti hanno puntato sempre più su finanza e servizi, mentre Taiwan ha scommesso sulla fabbricazione dei “cervelli” dell’industria e della difesa moderna (che tra l’altro vengono tuttora disegnati negli Usa).

Ma la diplomazia “commerciale” di Trump prevede che Taiwan paghi a “prezzo di mercato” le armi degli Stati Uniti che dal 1979, da quando cioè hanno riconosciuto la Rpc, sono tenuti a rispettare il “Taiwan Relations Act”, che assicura la fornitura di armamenti all’isola a scopo difensivo. Esportazioni che hanno registrato un boom proprio durante il primo mandato di Trump (18,3 miliardi di dollari, contro 6,3 miliardi durante la presidenza Biden).

Laleggedelcontrappasso

Taipei come la Nato

Insomma Trump ha lanciato a Taiwan lo stesso avvertimento che ha rivolto tante volte ai paesi della Nato: dovete spendere di più per la vostra difesa (acquistando sistemi d’armamento made in Usa). Cho Jung-tai, ha risposto che «Taiwan ha costantemente rafforzato il proprio bilancio per la difesa e ha dimostrato la propria responsabilità nei confronti della comunità internazionale». «Siamo disposti ad assumerci maggiori responsabilità per difenderci e garantire la nostra sicurezza», ha aggiunto il premier taiwanese.

Il ministro degli Esteri, Lin Chia-lung, ha affermato che l’isola farà affidamento sulle proprie capacità per contrastare le azioni dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) e ha ricordato che la spesa militare di Taiwan è aumentata costantemente negli ultimi otto anni, e si attesta al 2,5 per cento del Pil, aggiungendo: «Mi aspetto che continuerà a crescere».

Tuttavia, secondo l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, Robert O’Brien, Taipei ha bisogno di aumentarla ancora significativamente. In un’intervista alla Reuters O’Brien ha suggerito a Taiwan di destinare «almeno il 5 per cento del suo prodotto interno lordo» alle sue forze armate per tenere il passo con Pechino. Cosa palesemente impossibile, dato che la Rpc dispone di un esercito molto più potente e ha a disposizione risorse enormemente maggiori rispetto a Taiwan. Al portavoce del dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, è toccato chiarire che Taiwan ha acquistato «miliardi di dollari» di attrezzature militari dagli Stati Uniti. «Gli acquisti che Taiwan ha fatto non sono importanti solo per la sicurezza regionale, ma anche per l’economia degli Stati Uniti», ha detto Miller, sottolineando che «non sono stati in alcun modo beneficenza da parte degli Stati Uniti».

L’alleato destabilizzato

Taiwan ha stanziato la cifra record di 606,8 miliardi di dollari taiwanesi (18,5 miliardi di dollari) per le spese militari nel 2024, in aumento del 4,6 per cento rispetto al 2023. Tra il 2016 e il 2024, l’isola ha acquistato armi per un valore di oltre 800 miliardi di dollari taiwanesi dagli Stati Uniti.

Bloomberg ha descritto come «indifferente» l’atteggiamento rispetto a un eventuale attacco cinese di Trump, che su quest’ipotesi si è limitato ad affermare: «Taiwan è a 9.500 miglia di distanza dagli Stati Uniti, ma solo 68 miglia di distanza dalla Cina».

Non è detto che le parole di Trump contraddicano la strategia bipartisan di rendere l’isola un «porcospino», cioè di prepararla a fronteggiare un’eventuale invasione da parte dell’Epl riempiendola di armi adatte alla guerra asimmetrica, come in Ucraina. Evidentemente il piazzista Trump vuole che Taiwan acquisti più armi Usa di quanto fatto durante la presidenza Biden. Ma in tanti a Taipei temono l’imprevedibilità del tycoon, e lo scarso valore che attribuisce alle tradizionali alleanze degli Stati Uniti.

Tutto ciò mette in difficoltà il presidente Lai, che verrebbe costretto dal suo principale alleato (anche se non ufficiale, perché gli Usa non riconoscono Taiwan) a distrarre dal welfare o da altre voci di bilancio gli eventuali incrementi di spesa per le armi.

In una fase in cui già la localizzazione in Arizona (tre impianti, 65 miliardi di dollari d’investimento), in Giappone e in Germania di parte della produzione più avanzata dei microchip di Tsmc ha scatenato le accuse di chi ritiene che, per il timore di un attacco di Pechino, Taipei stia svendendo agli Usa e ai paesi amici la sua principale fonte di ricchezza.

«Dato l’atteggiamento affaristico di Trump, chissà se troverà le nostre “commissioni di protezione” sufficienti a giustificare la difesa dagli Stati Uniti, o se potrebbe avere dei ripensamenti sulle nostre esigenze di difesa», si è chiesto il deputato del Kuomintang Ma Wen-chun.

Dall’altra sponda dello stretto gli ha fatto eco il nazionalista Global Times, come al solito perentorio: le parole di Trump «smascherano il cosiddetto impegno degli Stati Uniti nei confronti di Taiwan, che in realtà è una promessa vuota».

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