Con un sempre più plausibile Trump-bis all’orizzonte, numerosi settori dell’economia americana e globale si trovano a fare i conti con le conseguenze di un simile scenario. Non sfuggono a questi calcoli le industrie tecnologiche più avanzate, inclusa quella dei microchip, o semiconduttori, i componenti chiave di qualunque tecnologia della computazione.

Nel pieno di un boom legato all’IA – di cui sono tassello fondamentale – i chip dipendono da una filiera globale che interessa tutti i continenti e attraversa alcune delle aree più “calde” del pianeta. Su tutte Taiwan, l’isola che la Cina non ha mai fatto mistero di voler riannettere per l’elevato valore strategico e simbolico, e che gli Stati Uniti, fin dagli anni Cinquanta, hanno giurato di proteggere anche a costo di arrivare a una guerra.

A Taiwan oggi si trova TSMC, l’azienda di manifattura di chip più importante al mondo. Vi viene fabbricato il 90 per cento dei chip avanzati prodotti ogni anno sul pianeta. I suoi clienti rispondono a nomi come Nvidia, Apple, Intel, Qualcomm e se l’apporto di TSMC alla filiera dei chip venisse meno, il danno per l’economia globale (tech e non solo) sarebbe incalcolabile.

La strategia di Biden

Questa è una delle ragioni per cui, nel corso del suo mandato, Joe Biden ha stanziato notevoli sussidi per convincere TSMC a spostare alcune delle sue produzioni più sofisticate negli Usa. Quella di Biden è stata una mossa dai molti significati e dai numerosi moventi – geo-economici e strategici – ma indubbiamente uno dei suoi principali obiettivi era di fornire all’industria del tech americano una sorta di “assicurazione sui chip” in caso di guerra a Taiwan.

I nuovi stabilimenti americani di TSMC saranno pienamente operativi solo verso la fine di questo decennio. Nel frattempo la stabilità di Taiwan rimane fondamentale per la filiera dei semiconduttori. Anche per questo Biden si è molto speso per confermare l’intenzione americana di difendere l’isola a ogni costo, arrivando addirittura ad abbandonare, lo scorso anno, la tradizionale ambiguità strategica in merito (una scelta che diversi esperti gli hanno peraltro rimproverato).

L’affondo di Trump

La postura anti-cinese e la posizione su Taiwan sembravano finora tra i pochi punti di accordo e continuità bipartisan tra democratici e trumpiani. Perlomeno finché, nel corso della recente convention repubblicana, Donald Trump non ha dichiarato che Taiwan dovrebbe «pagare gli Usa per la sua difesa».

Parole che riportano alla mente simili posizioni – da qualcuno paragonate a un «racket della protezione» – di Trump sulla Nato e che sicuramente non saranno dispiaciute a Xi. Di certo non sono state apprezzate dai mercati, visto che nelle ore successive all’intervento di Trump, il Nasdaq è sceso del 2,8 per cento, il Philadelphia Semiconductor Index (l’indice specifico dei chip) ha toccato il livello più basso dal Covid e le azioni dei grandi marchi del settore hanno perso diversi punti percentuali (il crollo maggiore lo ha subito Nvidia con un -7 per cento).

Non contento, in una successiva intervista con Bloomberg, Trump ha accusato Taiwan di aver «rubato il 100 per cento del business americano dei semiconduttori». Si tratta di un falso storico: negli anni ’80 furono in realtà i progettisti Usa di chip a prendere in autonomia la decisione di delocalizzare i processi di manifattura all’estero, divenendo così i clienti ideali di fabbriche come TSMC, e ogni successivo passo di crescita dell’azienda taiwanese è avvenuto con il contributo e l’avvallo più o meno diretto dell’industria dei semiconduttori americana (ed europea).

Mentre Trump lanciava i suoi strali, ASML l’azienda olandese che produce macchinari cruciali per la manifattura di chip, annunciava di aver superato di quasi un terzo le sue stime di venduto per l’anno in corso. Un chiaro segno del fatto che il boom del settore non è neppure lontanamente vicino.

In che modo vanno quindi interpretate le parole di Trump? E chi significato avrebbe il suo ritorno alla Casa Bianca per il futuro dei chip? Secondo i più pessimisti, le “minacce” di Trump a Taiwan sono da prendere alla lettera e potrebbero rappresentare l’inizio di una politica di disimpegno dall’isola asiatica, con conseguenze potenzialmente catastrofiche in primis per i suoi abitanti e, di riflesso, per l’universo dei semiconduttori.

Secondo analisti più prudenti, si tratta della tipica boutade trumpiana. E anzi, il caotico stile del personaggio potrebbe reintrodurre un po’ di ambiguità strategica in merito alla posizione americana sull’isola, col risultato di rendere più difficile per Pechino decifrare le intenzioni degli Usa in merito. L’unica cosa certa è che nel frattempo la “boutade” ha mandato in fumo svariati centinaia di miliardi di dollari sui mercati.

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