Evitata la chiusura dei servizi federali con un accordo non del tutto gradito a Trump. Ma il dibattito sancisce il potere totale del magnate, che detta la linea su tutto e non risponde a nessuno
La superpresidenza di Elon Musk è iniziata. Intestandosi il ruolo di guida dei repubblicani al Congresso sullo “shutdown”, l’uomo più ricco del mondo ha esteso a dismisura le sue prerogative prima che la nuova amministrazione si insedi, spingendosi perfino oltre a ciò che è concesso al presidente.
Alla fine, poco dopo la scadenza fissata, la legge per continuare a finanziare lo stato è stata votata, e non conteneva tutto ciò che Musk avrebbe voluto. Ma dentro questa parziale sconfitta – che comunque lui ha rivendicato come un successo – si legge una vittoria più grande per il megamiliardario, che consiste nella legittimazione come regista e attore protagonista di qualunque dibattito.
Musk per oltre una settimana ha spiegato che il disegno di legge inizialmente concordato fra democratici e repubblicani doveva essere abbandonato, si è inventato una serie di bugie per giustificare il suo dissenso, ha dettato i criteri per emendarlo drasticamente, ha insultato chi si opponeva e si è arrabbiato moltissimo quando i deputati repubblicani non hanno obbedito agli ordini, dicendo che è «inaccettabile».
Formalmente Musk non ha l’autorità per dare indicazioni politiche ai rappresentanti eletti dal popolo, ma nella sostanza ha già iniziato a farlo. E lo fa evidentemente su mandato di Trump, che manda avanti un suo sostenitore non eletto con il megafono più grande della storia, uno che non deve rispondere a nessuno e può sempre coprirsi con la foglia di fico della libertà d’espressione.
L’ipotesi speaker
Sembrava che il suo ruolo a capo di Doge, l’agenzia per l’efficientamento della pubblica amministrazione creata per l’occasione, avesse definito il recinto della sua azione politica, e invece Musk sta già mettendo le mani sul lavoro che spetta al ramo legislativo. Dà indicazioni, fa pressione, suggerisce strategie, distribuisce colpe e meriti.
Il senatore Rand Paul ha addirittura lanciato l’idea che venga eletto speaker della Camera, ruolo che non spetta necessariamente a un membro del Congresso. «Niente destabilizzerebbe la palude più che eleggere Musk...pensateci...niente è impossibile», ha scritto. Se non succederà è soltanto perché Musk è molto più potente fuori che dentro alle istituzioni.
Nei giorni convulsi della trattativa per evitare lo “shutdown” del governo federale, aveva in mano lo speaker Mike Johnson, che è stato costretto a rincorrere il cinguettare compulsivo di Musk e a tentare di cucire un accordo a lui gradito. È molto più conveniente telecomandare lo speaker dal proprio device che fare il faticoso lavoro di mediazione politica, pieno di attriti e inefficienze.
Politica estera
La superpresidenza di Musk si materializza anche nella definizione della politica estera. Anche in quel campo il megamiliardario si sta allargando. Era partito prendendo la parola, su invito di Trump, nella prima telefonata con Volodymyr Zelensky dopo le elezioni. Ora dà giudizi quello che succede negli altri paesi, lancia alleanze e endorsement.
«Solo AfD può salvare la Germania», ha scritto, rispondendo alle parole del candidato alla cancelleria della Cdu, Friedrich Merz, che aveva criticato Musk e Javier Milei. Il partito di estrema destra non si è fatto sfuggire l’occasione, e la leader Alice Weidel ha subito fatto un video in cui esalta la nuova alleanza forgiata su X.
Con un messaggio di sei parole il superpresidente ha dato la linea sulla Germania, la guida dell’Europa che sta attraversando una fase di crisi delicatissima, e ha impegnato l’amministrazione nel rapporto con un partito che anche pezzi dell’estrema destra europea giudicano impresentabile e pericolosamente neonazista.
Sono bastati pochi mesi perché Musk passasse da interessato sostenitore di Trump a custode di tutte le chiavi dell’amministrazione. Prima dell’attentato dello scorso luglio il magnate non aveva nemmeno esplicitamente dato il suo sostegno a Trump. Ora siede su un seggio che in un certo senso supera anche quello del presidente: dal suo regno di X si gode il privilegio di infischiarsene della divisione dei poteri, delle procedure istituzionali, dello stato di diritto.
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