Con un secondo mandato del tycoon alla Casa Bianca ci sarà più tolleranza per i regimi autoritari, purché leali. Tutti i progetti di basi, hub, porti e corridoi nei paesi del continente verranno vagliati in funzione anticinese
Se Donald Trump tornasse alla Casa Bianca, per l’Africa nera cambierebbe poco, a differenza di ciò che potrebbe accadere nel mondo arabo e mediorientale. I leader subsahariani non si fanno illusioni. Tra democratici e repubblicani l’interesse americano per i loro paesi è legato essenzialmente a una sola cosa: il contrasto ai nemici strategici. Anche se con la Russia sarà imposta la pace in Ucraina – come Trump continua a sostenere – rimane l’osso più duro: la Cina. C’è da temere che il continente africano sia destinato a diventare un campo di battaglia tra le due superpotenze.
La questione logistico-commerciale sarà prioritaria: Washington contrasterà ancor più duramente di quanto già non faccia oggi tutti i progetti di hub, porti o corridoi che non siano sotto il suo totale controllo o che siano sospettati di poter essere utilizzati da Pechino. Soprattutto gli Usa cercheranno di evitare basi cinesi (ma anche russe) sulla costa atlantica, quella che dà verso gli Stati Uniti. La battaglia per quelle sulla costa orientale è già datata, con alterne vicende e continui rivolgimenti di fronte: dal mar Rosso fino all’oceano Indiano, davanti alle coste mozambicane, per non parlare del Madagascar, Cina e Usa si sfidano da tempo anche attraverso i propri alleati. Inoltre ci sono potenze medie molto ambiziose che cercano i propri spazi, come gli Emirati, l’Arabia Saudita, la Turchia, ecc., oltre ovviamente ai russi.
Gli interessi italiani
Per ciò che concerne gli interessi italiani – vedi il Piano Mattei – il corridoio di Lobito (cioè la trasversale africana est-ovest che collega lo Zambia all’Angola) sarà sostenuto da Washington solo se “strategicamente sicuro”, altrimenti verrà contrastato. A quanto pare, la Cina sta cercando di riattivare la ferrovia TAZARA (Tanzania-Zambia Railway) che le permetterebbe di controbilanciare il corridoio sul versante orientale, tagliando in direzione del porto tanzaniano di Dar Es Salaam.
Un’amministrazione Trump guarderebbe prima di tutto alla convenienza politica e commerciale: sarà chiesto ai paesi africani coinvolti (e ad altri eventuali partner) da che parte si schierano. La posizione di un’amministrazione Trump sarà molto meno incline a compromessi su questo tipo di investimenti. Anche il corridoio Gibuti-Etiopia verrà passato al vaglio: finora si è trattato di una realizzazione per lo più cinese. Il nuovo progetto etiopico di sbocco al mare attraverso il Somaliland (porto di Berbera) e la cosiddetta Lapsset (Lamu Port- Sud Sudan-Etiopia) verranno verificati con attenzione. La facilità con cui Addis Abeba cambia partner (finanziario o industriale) non sarà più ammessa, per non favorire la parte cinese. Si tratta di progetti faraonici con migliaia di chilometri di strade o ferrovie ad alta capacità da costruire. Proprio per questo gli americani faranno attenzione all’assemblaggio finanziario che c’è dietro ogni piano.
In Africa centrale e occidentale è piuttosto una questione di tubi: diversi pipeline sono in progettazione per trasportare petrolio e gas sia verso la costa orientale sia in direzione nord. Anche in questo caso si tratta di progetti grandiosi che necessitano di ingenti finanziamenti. Il caso del pipeline tra Niger e Benin, oggi interrotto, è un caso tipico: la frizione tra gli stati dell’Alleanza del Sahel e l’Ecowas (la regionale occidentale) sta mandando in fumo un progetto per il quale i cinesi hanno investito ingenti risorse. Si può ipotizzare che gli Stati Uniti di Trump farebbero di tutto per lasciare le cose come sono.
Una futura amministrazione Trump non andrà tanto per il sottile: se tra i finanziatori o realizzatori (diretti e indiretti) di un qualunque megaprogetto africano vi saranno soggetti sgraditi o ambigui, Washington farà in modo di bloccarlo. Ciò vale sia per chi si è abituato a situazioni ibride come gli Emirati, sia per il Global Gateway europeo che funziona con il settore privato, quindi mediante project financing. In altre parole, se Trump torna alla Casa Bianca, tornerà in vigore un atteggiamento “o con noi e contro di noi” molto più netto di quello (già dirimente) attualmente in uso. Tutto ciò che gira attorno all’accaparramento delle terre rare o delle risorse energetiche e minerarie africane sarà sottoposto a esame.
Cristiani perseguitati
Non si pensi che una seconda amministrazione Trump smetterebbe di utilizzare la carta dei diritti: solo non saranno più quelli sulla democrazia, woke, gender o pena di morte, ma quelli sui cristiani perseguitati e sulle chiese sottoposte a esazioni. Già tra il 2016 e il 2020 lo State Department trumpiano aveva posto molti paesi africani sotto osservazione, come la Nigeria ad esempio, e fatto pressioni in favore dei cristiani in difficoltà.
Va rammentato che le chiese pentecostali e del risveglio, molto diffuse in Africa, hanno solidi legami negli Stati Uniti e sono fortemente rappresentate nelle varie amministrazioni repubblicane, incluso il team di Trump. Anche cattolici e protestanti storici hanno i loro legami, e tra loro oggi spicca il candidato vicepresidente J.D. Vance convertito al cattolicesimo. Sarà l’occasione per gli Usa di somministrare giudizi, offrire aiuti e distribuire punizioni, con meno cautele di prima.
Nessuno nel continente ha dimenticato che lo stesso Donald Trump ha definito l’Africa un posto di «shit hole countries», anche se l’infelice battuta è ritenuta una sbavatura da campagna elettorale. D’altronde oggi nel continente è in voga l’idea che gli africani debbano fare da soli senza l’aiuto di nessuno: un’impostazione che non dispiace alla destra americana.
L’Africa sta approfittando dei dividendi della globalizzazione e, per la prima volta dalle indipendenze, ha davanti a sé varie offerte tra le quali scegliere, un modo per non dipendere più soltanto da un unico partner o da una sola alleanza. Tuttavia restano linee rosse da non superare. Si tratta di un vantaggio per i regimi non democratici: una maggiore benevolenza da parte trumpiana, come già avviene ad altre latitudini, in cambio di un allontanamento da Pechino.
Questo vale anche per la presenza militare russa: malgrado la relazione Trump-Putin, non sarà tollerato un rafforzamento militare russo sul continente che vada oltre un certo limite. D’altronde l’utilizzo delle compagnie militari private (contractor) non scandalizza gli americani, ma basta che non ci si spinga oltre il limite.
I dirigenti africani non avranno molto di che preoccuparsi: la loro attuale politica di diversificazione dei partner (multi-allineamento funzionale, come viene definito) sarà rispettata, salvo legami troppo stretti con i cinesi. Così l’Africa proseguirà senza ostacoli l’allentamento delle alleanze tradizionali del periodo postcoloniale. Da parte americana non ci sarà la medesima reazione davanti ai colpi di stato che ad esempio ha frenato l’amministrazione Biden in Niger, costringendola ad andarsene in silenzio con la coda fra le gambe.
Medio Oriente
Molto diverse le circostanze in Medio Oriente e in Africa settentrionale. Il modello degli accordi di Abramo fu un’idea del genero di Trump, Jared Kushner, marito di Ivanka, tramontata con il 7 ottobre. Se non ci sono dubbi sulla stretta relazione tra Trump e Benjamin Netanyahu, va anche detto che gli Usa devono trovare qualcosa per fermare la guerra a Gaza e riaffermare la loro leadership sull’area. L’amministrazione Biden non è riuscita a frenare gli israeliani né a farli trattare: è mancato il coraggio di mettere l’attuale maggioranza ipernazionalista israeliana con le spalle al muro.
Trump non ha questo problema ma dovrà cercare un’altra via. Tornerà certamente in auge una relazione stretta con Riad: si punterà molto meno sulle mediazioni del Qatar o della Turchia, che cercano entrambi di mantenere in gioco Hamas come soggetto politico palestinese. L’Iran, con i suoi associati, resterà il nemico numero uno dell’area. Potrebbe accadere che sia dato maggior credito all’idea di “protettorato saudita” su Gaza, come desidera il principe ereditario Mohammed bin Salman. Così, paradossalmente, ciò costringerebbe Netanyahu ad accettare ciò che mai avrebbe voluto, perdendo definitivamente il controllo a vantaggio dei sauditi. Sarebbe un’eterogenesi dei fini di cui la storia è piena.
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