Una legge non scritta delle presidenziali americane dice che gli elettori votano per i candidati che sono in grado di convincerli, non contro quelli che trovano inadeguati. Anche quando sono impresentabili o addirittura pericolosi. È un gioco di affermazione, non di negazione. Occorre articolare una visione del paese, tratteggiare un’idea di futuro, non basta spiegare che in caso di vittoria dell’avversario sarà l’apocalisse.

La vittoria di Donald Trump, schiacciante oltre ogni previsione sondaggistica, nasce dalla capacità di mostrare al paese una visione. Greve e spaventosa, ma pur sempre una visione.

Al centro di questa concezione c’è la difesa del popolo americano dall’élite liberal che l’ha marginalizzato culturalmente, che l’ha impoverita adorando i dogmi della globalizzazione, che ha sporcato la sua purezza aprendo i confini agli immigrati, che si è presa gioco del “buon senso” inseguendo le parole d’ordine woke, che ha messo in fuga ricchezza industriale e posti di lavoro, ha ridicolizzato le visioni del mondo tradizionali di quelli che prima erano chiamati “deplorables” e oggi direttamente “garbage”, il popolo dei bifolchi sdentati ipnotizzati da un ammiratore di Hitler con il fondo tinta.

E quella stessa élite ha promosso guerre tragiche e costosissime (in tutti i sensi) per portare la democrazia liberale ai deplorevoli di tutto il mondo, concetto espresso nel modo più chiaro possibile dalla famiglia Cheney che ha fatto campagna per Kamala Harris.

L’idea centrale è quella del popolo americano abbandonato e senza voce che si riprende il paese. Nel 2016 Trump ha esplicitamente fatto leva su sentimenti suprematisti e razzisti per agitare sentimenti e risentimenti dell’America bianca, ma i dati elettorali che emergono in queste ore dicono che il suo messaggio ha fatto breccia anche fra i latinos e gli afroamericani, stanchi di essere trattati dai democratici come riserva di voti che senza fiatare converge sul partito di riferimento.

Trump ha vinto tutti gli stati contesi: Georgia e North Carolina erano la base su cui intendeva costruire la vittoria, ma poi ha sbaragliato anche il fragile “blue wall” del Midwest, vincendo in Wisconsin e Pennsylvania. Negli stati in bilico (che tanto in bilico non erano, a conti fatti) dove lo spoglio procede più lento – Michigan, Arizona e Nevada – Trump è davanti con margini non più recuperabili. Nelle famose contee a forte presenza di arabi-americani nel Michigan, dove è forte il sentimento contro l’amministrazione Biden per l’appoggio dato a Israele, Trump ha migliorato i risultati rispetto al 2020. «Abbiamo ottenuto una vittoria storica, forse la più grande di sempre negli Stati Uniti. Gli elettori ci hanno dato un mandato forte, consegnandoci anche il Senato e la Camera. Dio mi ha risparmiato per salvare il nostro paese», ha detto Trump. Che poi ha aggiunto: «Combatterò per voi tutti i giorni, fino all’ultimo respiro, e sarà una nuova età dell’oro in America».

Vittoria a valanga

Ma questi sarebbero i contorni di una vittoria elettorale tutto sommato “normale”. Trump è andato molto oltre. Ha allargato la maggioranza al Senato – decisiva per confermare le nomine presidenziali – e si avvia a riuscire nell’operazione di mantenere la Camera, smentendo la naturale fisiologia di un sistema che tende all’alternanza. Significa avere i numeri per fare tutto ciò che vuole, al netto del “filibuster”, l’istituto congressuale che permette di bloccare alcune leggi che non raggiungono una maggioranza qualificata. I democratici erano fino a ieri favorevoli a smantellare questa salvaguardia usata come metodo ostruzionistico, ma non è difficile prevedere una sua repentina rivalutazione.

Le elezioni mostrano anche uno spostamento generale del paese verso Trump. Gli stati repubblicani lo hanno votato con percentuali più alte rispetto a quattro anni fa, ma ha anche guadagnato voti in molti stati democratici: nello stato di New York, roccaforte della sinistra, i repubblicani hanno guadagnato 13 punti rispetto al 2020. Sono numeri che non si vedono nel conteggio dei grandi elettori, ma pesano sul voto popolare, dove Trump è avanti di circa 5 milioni di voti. Notevole il caso dell’Iowa, dove alla vigilia del voto il sondaggio di un rispettatissimo istituto smentiva le tendenze generale dando Harris avanti di 3 punti, cosa che per un attimo ha acceso le speranze democratiche. Trump ha vinto di 12 punti.

Senza visione

L’altra faccia della mobilitazione generata da Trump è la smobilitazione di Harris, candidata che dopo la luna di miele in seguito al pensionamento coatto di Biden a opera dell’establishment è andata in difficoltà quando si è trattato di raccontare la sua idea del paese.

Certo, non era facile spiegare in che modo sarebbe stata una scelta alternativa a un’amministrazione che portava anche il suo nome e contemporaneamente convincere l’elettorato che quattro anni fa l’aveva malamente bocciata alle primarie democratiche. Il tutto considerando che è arrivata alla candidatura con una manovra di palazzo, senza nemmeno una rabberciata consultazione dell’ultimo minuto.

Nel dare conto della sua visione economica si è scontrata con il fatto che il vecchio mantra clintoniano “it’s the economy, stupid” era già stato sepolto otto anni fa, ma la tentazione di farlo rivivere era troppo forte. Se la condizione economica fosse davvero l’unica bussola che orienta gli elettori, Harris avrebbe avuto gioco facile a mostrare che la Bidenomics funziona: crescita buona, disoccupazione bassa, inflazione in calo, spettri della recessione scacciati. La candidata non ha evidentemente saputo trovare le note giuste per far vibrare le corde dell’elettorato.

Harris si è trovata a condurre una campagna anomala. Forzatamente breve, ma anche spinta da finanziamenti senza precedenti nella storia delle campagne elettorali.

E il risultato è amarissimo: ha fatto molto peggio di Joe Biden nel 2020 e, incredibile a dirsi, ha fatto anche peggio di Hillary Clinton nel 2016. Almeno lei aveva vinto il voto popolare, che non conta formalmente nulla ma almeno indica qualcosa. È diventato istantaneamente un meme il segmento della Cnn in cui l’anchorman Jake Tapper chiede al collega John King di mostrare la mappa degli stati in cui la candidata aveva fatto meglio del presidente quattro anni fa. «Holy smokes!», ha esclamato Tapper di fronte alla cartina completamente grigia. Alla fine è riuscita a migliorare la performance di Biden di almeno il 3 per cento in 58 contee. Su 3.244.

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