Quattro anni di Trump potrebbero far guadagnare alla Cina quarant’anni sugli Stati Uniti. Pechino dovrà vedersela con un presidente che giudica “imprevedibile”
Chi crede che i leader cinesi abbiano seguito con trepidazione le elezioni che hanno riportato Donald Trump alla Casa bianca si sbaglia di grosso.
Negli ultimi giorni i media e la diplomazia di Pechino si sono concentrati piuttosto sul vertice dei Brics in Russia e sul China International Import Expo (Ciie) che si chiude domenica a Shanghai. Certo, la relazione bilaterale Usa-Cina resta la più importante per il futuro dell’umanità, ma è vero anche che negli ultimi anni l’attenzione e i commerci della Cina – in risposta alle misure protezionistiche delle economie più avanzate – si sono focalizzati sempre più sui paesi del Sud globale.
Le presidenziali Usa hanno rappresentato anzitutto un ghiotto boccone per l’apparato di propaganda più sofisticato e pervasivo della storia dell’umanità. I video del proiettile sparato da Thomas Matthew Crooks che il 13 luglio scorso ha quasi ucciso il candidato Trump, delle ripetute minacce di The Donald ai democratici, di Washington in stato d’assedio in vista di possibili violenze, sono stati trasformati in altrettanti spot per il partito comunista.
Il messaggio dei filmati che hanno inondato i social fa presa, soprattutto sui giovani cresciuti nell’era di Xi Jinping: il caos (luàn) sta indebolendo le democrazie liberali, mentre la Cina del partito unico è rafforzata dalla sua armonia (héxié) socialista-confuciana.
Ora però, con l’irruzione alla Casa bianca del miliardario repubblicano per un secondo mandato, Pechino dovrà vedersela con un presidente che giudica “imprevedibile”. Nell’attesa di conoscere gli esperti di Cina di cui si circonderà (potrà contare comunque sulla maggioranza repubblicana al Senato, decisivo per la politica estera), va ricordato che Trump è il capo di stato che, nel 2017, ha firmato la prima strategia di sicurezza nazionale Usa apertamente anti-cinese; che l’anno successivo ha scatenato contro Pechino una guerra commerciale; che sempre nel 2018 ha lanciato la liberticida China Initiative; e che durante la pandemia di Covid-19 ha dipinto la Cina come untrice globale.
Ciononostante, da Pechino non è giunta arrivata alcuna reazione al Trump 2. Il partito aspetta i risultati ufficiali, che sono arrivati quando in Cina era già sera inoltrata.
Chi ha l’iniziativa
Tuttavia, per provare a prevedere il clima dei prossimi quattro anni tra Washington e Pechino bisogna considerare che è stata quest’ultima a cambiare le carte in tavola delle relazioni sino-statunitensi così come erano state impostate dal 1979 con l’America di Jimmy Carter.
Il riconoscimento della Repubblica popolare cinese da parte del 39° presidente Usa aprì il percorso che avrebbe permesso in pochi anni alla Cina di trasformarsi nella fabbrica del mondo al centro della globalizzazione guidata dalle corporation a stelle e strisce. Dopo quarant’anni di crescita, al XIX congresso del partito comunista (18-24 ottobre 2017), Xi ha annunciato una “Nuova era” che è il coronamento di un percorso intellettuale-politico-economico iniziato con la campagna di “auto-rafforzamento” nella seconda metà dell’Ottocento, e il cui esito sta terremotando i mercati globali, con il made in China che oggi compete in settori ad alto valore aggiunto in precedenza appannaggio dei paesi più avanzati.
Inoltre Xi ha osato dire al mondo che la Cina vuole diventare ricca, rafforzare il suo esercito (fùguó qiángbīng) e contribuire a un nuovo ordine “multipolare”.
Non è un caso che Donald Trump abbia dichiarato la guerra commerciale nel 2018, qualche mese dopo quella storica assise, mentre le strategie di sicurezza nazionale sia di The Donald, sia di Joe Biden hanno messo la Cina al centro, come “concorrente”, “avversario”, “rivale”, in grado di sfidare l’egemonia Usa.
La leadership di Pechino ha messo in conto relazioni tese e conflittuali con Washington almeno da quel fatidico ottobre 2017, indipendentemente da chi risieda alla Casa bianca. Biden si è opposto all’iniziativa di Pechino con una strategia abbastanza chiara, che ha messo i bastoni tra le ruote dell’ascesa cinese.
Taipei merce di scambio
Il comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo (il parlamento di Pechino) è riunito da lunedì scorso per dare l’ok allo stimolo fiscale decretato dal governo che, dopo il successo di Trump, potrebbe essere aumentato del 10-20 per cento (dal 2 al 3 per cento del Pil).
The Donald ha infatti minacciato dazi del 60 per cento sull’import di tutte le merci di un paese, la Cina, che tuttora dipende dalle esportazioni. E se davvero Trump dovesse imporre dazi a destra e a manca (anche se non nella misura di quelli annunciati), la Cina - come ha anticipato il premier Li Qiang aprendo lunedì il Ciie di Shanghai - potrà proporsi in maniera più credibile come «forza che dà stabilità all’economia mondiale e fermo sostegno alla globalizzazione».
In questo modo Trump potrebbe favorire un difficile riavvicinamento tra Pechino e Bruxelles, qualora riproponesse la miscela di isolazionismo e protezionismo che ha già irritato l’Unione Europea durante il suo primo mandato. E occhio a Taiwan, che The Donald considera soprattutto come una pedina da scambiare: basta al sostegno politico e militare incondizionato a Taipei, in cambio di una riduzione del deficit commerciale con la Cina.
Un’America più chiusa in se stessa che non si cura più di tanto delle sue tradizionali alleanze, la possibilità di riavvicinarsi all’Europa, più spazio per far avanzare la “riunificazione pacifica” di Taiwan. Senza contare il legame con la Cina (mercato strategico per Tesla) di Elon Musk, a cui Trump potrebbe affidare un ruolo importante nella prossima amministrazione. Apparentemente a Pechino hanno di che brindare.
Ma è pur vero che i rapporti Cina-Stati Uniti - la “rinnovata competizione tra grandi potenze”, come la definiscono a Washington - sono ormai entrati una fase critica nella quale, nemmeno a un personaggio con le caratteristiche di Trump è permesso di cambiare più di tanto le carte in tavola.
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