Gli analisti si aspettavano che Trump dichiarasse la propria vittoria a urne aperte, proprio come fatto nel 2020, per seminare caos e confusione mentre i risultati apparivano ancora incerti.

E invece la sua vittoria appare proprio rotonda e senza dubbi: il tycoon ha conquistato tutti e sette gli stati in bilico, ovvero North Carolina, Georgia, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Arizona e Nevada con margini superiori al 50 per cento. Stavolta, quindi, non si punta il dito su una terza candidata come la verde Jill Stein, che pure aveva promesso che avrebbe fatto perdere Harris. Insieme a questo risultato, i repubblicani hanno conquistato una robusta maggioranza al Senato e una esile alla Camera, contrariamente alle previsioni della mattina che davano numeri più favorevoli ai dem.

Infine, il tycoon centra anche il bersaglio che finora gli era sfuggito, la vittoria del voto popolare, obiettivo che mancava ai repubblicani sin dalla rielezione di George W. Bush, anche se rispetto al 2020 perde qualche milione di voti.

Un trionfo, su tutta la linea, reclamato da Trump con un discorso dal suo quartier generale di Palm Beach, in Florida, dove ha proclamato la sua vittoria con un tono meno sinistro del solito, promettendo forse vanamente di voler risanare le ferire del Paese e di voler lanciare il Paese in una seconda età dell’oro nostalgica e imprecisata che però forse corrisponde soltanto al 2019, dove i prezzi di benzina e beni di consumo erano più bassi.

Assenti dal testo pronunciato dal neo presidente eletto anche i nomi di Joe Biden e di Kamala Harris anche soltanto per usare un ringraziamento di circostanza.

Harris ha lasciato smarriti i suoi elettori parlando soltanto alle 16, ovverosia alle 22 ora italiana, dalla Howard University di Washington dove aveva studiato legge tanti anni fa, riconoscendo la sconfitta e voltando pagina su una campagna elettorale di soli 4 mesi che però non ha sortito gli effetti sperati.

Ora per Trump si apre un nuovo capitolo, quello della costruzione della sua nuova amministrazione, dove pur non potendo far previsioni ragionevoli sui nomi, si può già sin d’ora affermare che sarà maggiore il numero dei completi outsider rispetto a veterani della politica repubblicana come il senatore Marco Rubio della Florida, da qualche accreditato come possibile segretario di stato.

Ci si domanda anche come potrà andare una convivenza tra due personalità fuori dalle righe come lo stesso Trump ed Elon Musk. Quest’ultimo in teoria dovrebbe sovrintendere a una nuova agenzia federale incaricata di rendere le strutture governative “efficienti” che però, a detta dello stesso magnate di Tesla, potrebbe creare una «crisi economica temporanea» prima di ripartire con una presunta «prosperità». Già nel corso del suo primo mandato il tycoon mal digeriva le persone troppo ambiziose e disposte a “metterlo in ombra”, anche per questa ragione aveva allontanato in malo modo il suo consulente strategico Steve Bannon.

Nel caso di Musk, gli stridori potrebbero essere ancora più evidenti. Si rimane con il fiato sospeso anche su sue eventuali strategie e decisioni riguardo al conflitto tra Israele e Hamas e a quello tra Russia e Ucraina. Inutile cercare di capire, si rischia seriamente di restare spiazzati come di fronte alla nuova maggioranza trumpiana che ora governa l’intero Paese, anche se con qualche crepa. Sorprende molto infatti che se Kamala Harris ha perso in tutti gli stati in bilico, lo stesso non si può dire del Senato, dove le candidate Tammy Baldwin in Wisconsin e Elissa Slotkin in Michigan sopravvivono all’ordalia (numeri che possono ancora cambiare in quest’ultimo caso).

Notevole il caso del neoeletto senatore dell’Arizona, il dem Ruben Gallego, che supera la ipertrumpiana Kari Lake rivelando che la misoginia di parte dell’elettorato può colpire anche i candidati dell’altra parte, altrimenti non si spiega come questo risultato si abbini con la conquista dello stato da parte di Trump, che torna a vincere dopo la sorprendente sconfitta del 2020 ad opera di Joe Biden.

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