Il governo della Tunisia continua con la sua politica contro chi arriva dall’Africa sub-sahariana. Ora Saied chiede ancora più soldi. Le partenze sono diminuite ma i morti sono aumentati
«Vi prego, aiutateci o se non potete, almeno fate sapere a tutti cosa succede qui». Alle 16 di un infuocato pomeriggio di agosto, un messaggio di sos parte dal deserto tunisino, pochi chilometri al di qua del confine con la Libia. A parlare è Mamou, un giovane sud sudanese. Lui e altri undici, tutti sub-sahariani, sono stati scaricati la notte precedente in mezzo al nulla dalla polizia tunisina. Senza cibo né tantomeno acqua.
«Uno dei compagni è stato picchiato molto forte dalla polizia, senza motivo. Lo fanno spesso – spiega Mamou – così da spaventare il gruppo e nessuno oppone resistenza». Questa volta è toccato a un uomo del Camerun fare da esempio per gli altri, e così si beccato un pugno per farlo crollare e calci per tramortirlo. «Credo abbia una frattura alle gambe, ha una ferita aperta e perde sangue», racconta Mamou nel suo audio. «È svenuto più volte e lo abbiamo trasportato insieme, ma con il caldo anche per noi è difficile».
In mezzo al deserto, senza riferimenti geografici né telefoni, il gruppo è andato a zonzo fino a raggiungere una “pista”, un sentiero molto labile nella sabbia tracciato da chi ha percorso la stessa strada, magari poco prima. Perché è proprio qui, nell’area di Ben Guardane che l’esercito tunisino abbandona i migranti sub-sahariani, per scaricarli a un altro governo. «Problemi loro», dicono.
Il confine libico
La distanza dal confine libico, e in particolare da Ras Ajdir, il primo villaggio in Libia, è di soli 32 chilometri. In macchina non è lontano, certo, ma a piedi, con 50 gradi e spesso senza neanche le scarpe, è tutt’altra cosa. «Abbiamo capito che la direzione era giusta perché abbiamo visto dei corpi insabbiati – spiega ancora Mamou – e abbiamo pregato di non fare la stessa fine anche noi».
L’intera zona brulica di cadaveri, perché le deportazioni del governo tunisino non si sono mai interrotte. Nonostante le denunce di diverse organizzazioni umanitarie e persino dell’Onu, centinaia di persone continuano a morire. «Proprio ieri ho recuperato un altro corpo». A raccontarcelo è Chamesddine MarZoug, un pescatore tunisino di Zarzis che ha creato un cimitero dei morti senza identità. «C’era il cadavere di un giovane, sarà stato un minorenne. L’ho ripulito e l’ho sepolto».
Durante il governo di Gheddafi, Chamesddine lavorava come guardia di frontiera ed era rimasto sconvolto dal trattamento disumano nei confronti dei migranti. Così negli anni, a proprie spese, ha ripulito un pezzo di terra e si è organizzato con Protezione civile, guardia medica e volontari, per dare dignità agli esseri umani che incontra, vivi o morti. «Non conosco né il nome né la religione ma non importa, sfido anche i politici».
Da quando il governo tunisino ha avviato questa politica feroce contro i migranti, specialmente quelli sub-sahariani, il numero dei cadaveri nel deserto è quintuplicato. «Ne trovo tantissimi nelle ultime settimane – dice ancora Chamesddine – e andando avanti e indietro con il mio furgoncino vedo anche tanti camion dell’esercito che fanno la spola da Sfax a qui».
Il business delle partenze
Servono circa tre ore e un quarto di viaggio per andare da ovest a est della costa tunisina, dagli uliveti di Sfax alle strade della Libia, ma è un viaggio che la polizia è disposta a compiere anche due volte al giorno, se necessario.
I raid delle guardie di frontiera nei campi di ulivi sono diventati molto frequenti e si concentrano soprattutto quando si aprono le finestre di bel tempo, quando, cioè, si preparano le partenze verso l’Italia.
«La polizia è diventata sempre più brutale, non hanno nessuna pietà», spiega Fred, un ragazzo del Camerun. Qualche giorno fa le guardie hanno picchiato una donna incinta che ha perso il bambino in grembo.
«Gli uomini soli li deportano nel deserto verso la Libia – spiega ancora Fred – mentre le donne con i bambini o le arrestano o le deportano al confine con l’Algeria, come fosse un piacere, come fosse più facile».
Negli uliveti oramai ci sono migliaia di persone, che scappano dalla guerra o dalla fame e che arrivano in Tunisia dopo aver già compiuto un viaggio massacrante. Ma l’obiettivo più grande è arrivare fino alle coste del nord Africa e poi tentare la sorte del Mediterraneo. «I tunisini non ci vogliono – spiega Fred – però sono gli stessi cui fa comodo farci arrivare, perché sono proprio loro a gestire il business delle partenze».
L’accordo con l’Ue
Effettivamente, ci hanno raccontato che ad alcune persone, in realtà, l’accordo del presidente Saied con l’Europa e con Giorgia Meloni non piace poi tanto. «Ci hanno rovinato il business», ci racconta una fonte. «Adesso si parte molto meno, a meno di non corrompere la guardia costiera. Si fa lo stesso, ma meno di prima».
Le barche in partenza, le “bare”, come lo chiamano per via della loro forma, sono tutte pronte sulle spiagge tra Mahres e Beliana e i costi per un viaggio sono aumentati. «Proprio perché adesso c’è più richiesta e però è anche più difficile hanno alzato il prezzo fino a 2mila euro a persona», spiega ancora Fred.
Lui non ha ancora racimolato tutti i soldi, sta aspettando di trovare un lavoretto, molto difficile, o di farsi mandare i soldi da casa. Negli uliveti la voce di una possibile partenza circola in pochissimo tempo e i trafficanti, spesso tunisini, danno appuntamento al gruppo in partenza sotto un certo albero. Ci si conta, si raccolgono i soldi e ci si incammina.
«Prima si partiva di sera – spiegano dagli uliveti – adesso anche di giorno. Qualche barca partirà tra domenica e l’inizio della settimana, le previsioni dicono che il mare sarà calmo».
La possibilità di morire sarà leggermente inferiore ma non è detto. Il governo italiano ha sbandierato il suo 62,3 per cento di sbarchi in meno rispetto allo scorso anno, peccato che il numero dei morti e dei dispersi sia triplicato, come le organizzazioni umanitarie avevano previsto dopo la firma del memorandum tra Ue e Tunisia.
Il presidente Saied ora chiede ancora più soldi: per finanziare nuove prigioni per migranti, come i lager libici, per pagare milizie che dovrebbero sbarrare la strada lungo la rotta del deserto e per sovvenzionare i mezzi per il trasporto dei migranti nel deserto. Soldi europei e italiani usati per condannare a morte migliaia di uomini, donne e bambini.
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