Respinti, incarcerati o scaricati al confine. È l’incubo che stanno vivendo da un mese alcune famiglie di origine sudanese, anche con bambini e bambine piccoli, in Tunisia. Quella stessa Tunisia sostenuta - politicamente e finanziariamente - da Italia ed Europa e ritenuta dal governo guidato da Giorgia Meloni "paese sicuro" in cui rimandare le persone. Nel limbo e in pericolo, nonostante le Nazioni unite continuino a chiedere al governo di Kaïs Saïed di fermare le persecuzioni.

Lo sgombero

L’incubo incomincia il 3 maggio scorso a Tunisi: alcuni accampamenti informali di fronte alla sede dell’Agenzia Onu per i rifugiati e dell’Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, a Lac 1 Tunisi e vicino al Jardin Public Lac 1, vengono sgomberati con la forza dalla polizia tunisina.

Secondo le segnalazioni arrivate ad alcune associazioni del paese, almeno 500 persone vengono arrestate: sono prevalentemente di nazionalità sudanese, sud-sudanese e ciadiana, chiedono protezione internazionale e alcune di loro si sono registrate per i servizi di Unhcr e Oim.

All'alba vengono «caricate con la forza su almeno sette autobus e trasferite verso destinazioni sconosciute, probabilmente nelle regioni di Jendouba e Medjez el Bab, secondo le ultime coordinate gps ricevute».

Una settantina di loro - tra cui anche 9 bambini e bambine e 7 donne - vengono scaricati in mezzo al nulla, a 25 km dal confine algerino, senza cibo né acqua. Un altro gruppo viene lasciato da cinque autobus oltre la frontiera, vicino alla città algerina di Sidi Abdelaziz.

La battaglia legale

È a questo punto che alcune persone del gruppo, tutte di origine sudanese, presentano un ricorso di urgenza al Comitato per i diritti umani delle Nazioni unite con il sostegno delle avvocate di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull'Immigrazione e la collaborazione di diverse associazioni tra cui Refugee in Libya.

Il Comitato, pochi giorni dopo, interviene dichiarando una situazione di pericolo per i migranti. E chiede alla Tunisia di fornire loro l'assistenza necessaria, compresa quella medica: nel gruppo ci sono anche bambini piccoli. Chiede anche di non espellerli dal paese «mentre il loro caso è all'esame del Comitato e di prevenire qualsiasi minaccia, atto di violenza o rappresaglia a cui potrebbero essere esposti in seguito alla presentazione della richiesta al Comitato», in attesa della decisione definitiva sulla effettiva violazione delle convenzioni internazionali ratificate anche dalla Tunisia.

Richieste che il governo di Saïed ignora: un gruppo di persone, minori inclusi, tornano a piedi verso Tunisi ma vengono arrestati e detenuti per circa una settimana e processati per ingresso irregolare nel paese. «Eppure ci sono famiglie e bambini piccoli, e vengono tutti dal Sudan, paese con un altissimo tasso di riconoscimento della protezione internazionale», racconta Lucia Gennari, una delle avvocate che per Asgi sta seguendo il caso. «I ricorrenti sono registrati all’Unhcr in Tunisia come richiedenti asilo, e avevano con loro i tesserini: un dato quindi disponibile alle autorità tunisine».

Dopo il processo e la scarcerazione alcuni di loro, soprattutto gli uomini in viaggio da soli, vengono deportati in Algeria. Gli altri, comprese le famiglie con bambini, restano comunque nel limbo: bloccati in Tunisia, un paese che non li vuole, in attesa della decisione del Comitato delle Nazioni unite. Decisione che, tra l’altro, non arriverà prima di un anno, visto che la Tunisia ha tempo fino a novembre per mandare le proprie considerazioni rispetto al caso.

«Bisogna accendere i riflettori e creare giurisprudenza anche sulla Tunisia alla luce delle politiche xenofobe portate avanti nel paese da oltre un anno», aggiunge Gennari. «Poi lavoreremo con la società civile tunisina per la tutela dei diritti di queste persone: dal risarcimento del danno alla possibilità di richiesta specifica di protezione alle organizzazioni internazionali».

Le condanne, pubbliche e reiterate, anche da parte delle Nazioni unite «continuano a non influenzare i rapporti tra l’Italia, l’Europa e la Tunisia», dice l’avvocata. Nel frattempo sono più di 4.700 le persone sbarcate sulle coste italiane ad aprile, nonostante il meteo prevalentemente avverso, secondo l'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati.

Dato che segna un calo di arrivi rispetto al mese precedente (6.857). Libia e Tunisia si confermano ancora una volta come principali paesi di partenza, ma proprio ad aprile il paese governato da Saïed è tornato a essere il primo paese di partenza per gli arrivi via mare in Italia dal settembre 2023, con il 73 per cento di tutti gli arrivi. «Sappiamo anche che chi viene intercettato in mare, magari grazie alle motovedette finanziate dall’Italia e l’Europa, viene mandato ai confini», conclude Lucia Gennari. In Libia come in Algeria, paese comunque ostile, «dove restano in mezzo al nulla, nel deserto. Abbandonati totalmente, rimbalzati tra un paese e l’altro o ulteriormente respinti a sud verso il Niger».

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